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L’EPILOGO DELLA PRIMAVERA ARABA IN SIRIA

L’ORIGINE RELIGIOSA DELLA CRISI IN SIRIA

Nelle scorse settimane abbiamo dedicato una serie di articoli per conoscere la realtà siriana, dai primi 4 della Serie “Conosciamo la Siria” ( Siria 1Siria 2Siria 3Siria 4 ) , a quelli successi dove illustravamo le origini egli sviluppi della guerra civile, considerando il peso dei vari gruppi di opposizione e gli interessi dei paesi stranieri coinvolti, approfondendo nello specifico il turbolento rapporto tra Siria e USA e la storica alleanza tra Siria e Russia.

A distanza di 7 anni i frutti velenosi della cosiddetta “Primavera Araba” sembrano essere definitivamente marciti, portando via con loro il meglio ed il peggio della gioventù siriana, compromettendo il futuro di una delle nazioni più progredite del mondo arabo, dove l’islam aveva trovato una reale dimensione religiosa, nonostante i reiterati tentativi di utilizzarlo come un catalizzatore politico di massa. Infatti, già negli anni 80, la Siria si era dovuta confrontare con il tentativo di confessionalizzare la realtà politica, contrapponendo artificiosamente la comunità islamica sunnita a quella alawita di derivazione sciita, tentando di vanificare il tradizionale clima di tolleranza vigente all’interno della società siriana, dove l’islam addirittura manteneva rispettosi rapporti persino con la piccola comunità cristiana locale, garantendone l’incolumità.

In Siria, la geopolitica è riuscita a confessionalizzare la sfera socio-politica, strappando la religione alla sfera privata, trasformandola in elemento politico funzionale allo scardinamento degli storici, ma senza dubbio fragili, equilibri interni alla società siriana, dove l’identità araba ha sempre prevalso sulle peculiarità confessionali. D’altronde, trasformare le peculiarità religiose di una realtà plurale come quella araba, è stato da sempre uno degli obiettivi prediletti dagli strateghi internazionali, e la questione israelo-palestinese rappresenta sicuramente l’esempio più palese di questo metodo di destabilizzazione politica. Infatti, la questione israelo-palestinese tutt’oggi ruota attorno ad un artificioso dualismo religioso che vuole contrapposti ebraismo ed islam, due confessioni che fino alla dissoluzione dell’Impero Ottomano coesistevano pacificamente all’interno dello stesso tessuto sociale, armonizzando le proprie peculiarità religiose.

 

Identificare le religioni come la causa dell’endemica instabilità mediorientale sarebbe dunque errato, così come risulterebbe ugualmente errato considerarle estranee a tale dinamica socio-politica, infatti, qualsiasi confessione religiosa si fonda sulla fiducia, un elemento trascendentale puro che spesso viene accordato anche a soggetti che ne approfittano per trarne vantaggi decisamente antitetici ai nobili fini perseguiti dalle stesse religioni, il cui significato originale più autentico rischia di essere corrotto, o quanto meno fuorviato, da abili comunicatori, spesso mossi da moventi politici decisamente meno trascendentali, di quel che si potrebbe immaginare. E bene ricordare che l’obiettivo di chi strumentalizza la religione, resta sempre quello di ledere quel rapporto di fiducia a cui i fedeli di tutti i religiosi si abbandonano, ricercando una comunione spirituale con la sfera divina, da cui solitamente traggono nobili valori, pertanto la fonte del caos mediorientale non può essere ricondotta semplicemente alla religione, quanto piuttosto all’abilità retorica dei suoi corruttori.

( Esempio di coesistenza tra “ribelli moderati” e terroristi islamisti )

 

Purtroppo l’eccesso di fiducia insito in qualsiasi religione, compreso l’islam, risulta essere il punto debole delle masse arabe, sistematicamente ingannate da soggetti che predicano subdole ideologie parassita, sapientemente camuffate sul piano religioso, ma che in realtà si accordano ad obiettivi strategici di matrice geopolitica, verosimilmente predisposti da soggetti o organizzazioni che nulla hanno a che fare questa religione, e soprattutto con questa turbolenta regione geografica. Il caos mediorientale mette sulla bilancia un numero spropositato di vittime, accompagnate da una vorticosa spirale d’odio, controbilanciato da una serie di interessi geopolitici dal valore inestimabile, siano essi meramente economici o squisitamente politici. Dietro questi interessi è possibile intravedere l’ingombrante presenza di attori occidentali, sempre pronti a camuffare i propri interessi dietro una fitta cortina retorica democratico-umanitaria, con cui perseguono, più o meno risolutamente, le loro tradizionali trame egemoniche.

DALLA PRIMAVERA ARABA ALL’INVERNO SIRIANO

Nel 2011, una serie di proteste popolari ha innescato la mobilitazione delle masse arabe, stanche di soffrire condizioni sociali precarie, spesso reali, ma che a differenza delle altre episodiche proteste hanno goduto sin da subito di una massiccia copertura mediatica, sospettosamente simile a quella goduta dalle cosiddette “rivoluzioni colorate”. Sicuramente il ruolo dei social-network è stato importante, tuttavia il tam-tam sarebbe inevitabilmente scemato, senza l’amplificazione enfatizzata del vetusto, ma efficacissimo, apparato mediatico main-stream, abile nel promuovere questo anomalo fenomeno socio-politico sotto il brand “Arab Springs” (Primavera Araba). Le Primavere Arabe attraverseranno un po’ tutto il Medioriente, fatta eccezione per alcune “oasi protette“, come l’Arabia Saudita, il Bahrein, la Giordania, il Kuwait ed il Qatar, dove a quanto pare le popolazioni autoctone non ritenevano necessario affrancarsi da sistemi autocratici ben peggiori di quello in auge nell’Ancient Regime, sotto il Re Sole. Paradossalmente le aristocrazie di questi paesi, chi più chi meno, si spenderanno senza riserve per la causa della ribellione siriana, spinti da un anomalo slancio internazionalista liberal-democratico. Questo generosissimo supporto devierà le legittime istanze sociali dei manifestanti, dirottandole su di un piano marcatamente politico, mettendo alla berlina l’ordine politico plasmato dal Partito Socialista Panarabo Baath, accusato di procrastinare indefinitamente la democratizzazione del paese, facendosi scudo dello stato di emergenza giustificato dallo stato di guerra tutt’oggi vigente con Israele, a cui contesta l’occupazione illegittima della strategiche alture del Golan.

siria ribelli primavera araba
( Manifestanti islamiste in Siria )

Sotto l’impulso delle pressioni internazionali, la ribellione siriana finirà per radicalizzare le proprie posizioni, rinunciando alla possibilità di inaugurare una proficua stagione di riforma costituzionale, a cui il governo del giovane Presidente Bashar al-Assad sembrava disposto ad avviare, prendendo le distanze dall’approccio autocratico dell’ex Presidente Hafiz al-Assad. Con le giuste pressioni politiche, i ribelli avrebbero potuto indirizzare le proteste su di un binario riformista, anche se ad onor del vero, la mancanza di partiti politici ben organizzati alternativi al Baath, esponeva la società alle sirene dell’islam politico, abile nel capitalizzare la fiducia dei siriani nelle organizzazione islamiste, soprattutto quelle attive nelle aree a netta prevalenza sunnita, dove riusciranno ad instillare ancora una volta la contrapposizione confessionale con la minoranza alawita, da cui provenivano importanti esponenti del governo baathista, il cui approccio laico bastava a renderli colpevoli di eresia. L’influenza delle organizzazioni islamiste radicali, guidate da carismatici predicatori stranieri, spesso appartenenti alla setta radicale Wahhabita, riuscirà a strumentalizzare l’autentico rapporto che i siriani intrattenevano con l’islam, convincendoli ad intraprendere una catastrofica guerra civile, incentrata artificialmente sul dualismo tra musulmani sunniti e sciiti (alawiti). La confessionalizzazione della rivolta, e la sua conseguente deriva terroristica e militare, sponsorizzata dalle petro-monarchie del Golfo Persico e da alcuni paesi occidentali, ha delegittimato i suoi promotori, permettendo alla retorica islamista più o meno totalitaria di prendere il sopravvento sulle originali istanze democratiche.

LE RESPONSABILITA’ DEI RIBELLI SIRIANI

I ribelli siriani oggi si ritrovano dalla parte sbagliata della storia, hanno perso la dignità delle prime proteste, asservendosi acriticamente a movimenti islamisti che non solo hanno rovinato le loro esistenze, ma hanno anche contribuito a delegittimare la loro religione dinnanzi l’opinione pubblica internazionale, scandalizzata dalle efferatezze che queste bande di criminali hanno perpetrato in Siria e nel mondo, sotto l’insegna dell’ISIS e dei vari gruppi federati ad al-Qaida. Sui ribelli siriani, rimasti asserragliati nei dintorni di Idlib, grava la responsabilità di aver legittimato politicamente le formazioni islamiste, rendendosi complici delle loro nefandezze, inqualificabili persino dal punto di vista militare. I ribelli siriani potrebbero riscattare quel che resta della loro dignità, compromessa da anni di connivenza con i jihadisti, sollevandosi in massa contro di essi, riconciliandosi con il resto del paese, che dinnanzi all’esigenza di conservare l’integrità della propria patria, ha subordinato le proprie riserve politiche nei confronti del governo baathista guidata da Assad, coalizzandosi contro il tentativo di alcuni paesi di disintegrare la loro madre patria, conservando quello spirito di coesistenza pacifica che le formazioni islamiste intendevano soppiantare, istituendo un regime totalitario islamista, totalmente antitetico alla struttura costituzionale laica garantita dalla Repubblica Araba Siriana.

A distanza di 7 anni la crisi sembra ormai sul punto di rientrare, proprio grazie a quei siriani che non si sono di certo risparmiati nella difesa della propria patria, pagando un tributo altissimo, con cui hanno rinforzato i propri legami patriottici, basti pensare al numero di soldati caduti sotto i colpi dei loro fratelli illusi e fuorviati dalle prediche dei loro sedicenti fratelli di fede, che oggi, sconfitti, si preparano a far ritorno ognuno nei propri paesi d’origine, lasciando loro in eredità solo i conti da regolare con la storia, in un paese come la Siria, sedotto, abbandonato e devastato dai suoi “benefattori internazionali”, anch’essi sconfitti dalla tenacia dell’Esercito Siriano, uscito vittorioso nonostante avesse tutti i pronostici contro. Infatti, senza il sacrificio di molti siriani sul fronte, e senza il supporto delle loro famiglie a casa,  nemmeno il provvidenziale intervento militare della Russia avrebbe impedito il crollo della Repubblica Araba Siriana.

RUSSIA E IRAN RIBALTANO LA SITUAZIONE 

Detto questo, senza il supporto della Russia, dell’Iran e delle milizie libanesi Hezbollah, oggi la Siria, e probabilmente anche l’Iraq, avrebbero lasciato il posto ad un Califfato Islamico guidato dai fanatici dell’ISIS. La Russia, sotto la guida del Presidente Putin, è riuscita a sottrarre la Siria da un epilogo jugoslavo, facendosi carico di una efficientissima campagna aerea, che ha permesso all’esercito siriano di ribaltare le sorti del conflitto, tenendo testa alle orde di terroristi islamisti, più o meno moderati, strappandogli, chilometro dopo chilometro, il controllo di quasi tutto il paese. Il supporto russo si è anche sviluppato sul piano tattico, affiancando le operazioni dell’esercito siriano, soprattutto quelle guidate dall’efficientissima Tiger Force, spesso coadiuvata su altri fronti dalle efficientissime milizie libanesi Hezbollah, coordinate dagli abili strateghi iraniani delle IRGC (Pasdaran).

su-34 russia caccia bombardiere
( Caccia bombardieri russi SU-34 in missione in Siria )

Alla Russia spetta il merito di aver governato con lungimiranza il caos siriano, coordinandosi con l’Iran ed addirittura riuscendo a piegare la Turchia di Erdogan dalla propria parte, cooptandola su di un percorso multilaterale, che consente a questi tre paesi un ruolo autonomo, ma ben disciplinato, da giocare nella risoluzione della crisi siriana, offrendo loro una valida alternativa al caotico e fallimentare approccio unilaterale americano. La Russia, con il suo approccio multilaterale, non ha imposto una soluzione unilaterale scomoda, ma al contrario, ha permesso a tutti gli attori coinvolti di contribuire all’assestamento della crisi, garantendo una soluzione mutuamente comoda per tutti. In particolar modo, oggi la Russia, al contrario degli USA, può vantare rapporti equidistanti con tutti gli attori mediorientali, dall’Iran a Israele, passando per la Turchia, l’Egitto e l’Arabia Saudita, il che permette a Putin di svolgere un ruolo fondamentale nella gestione dei complessi rapporti nell’area, ritrovandosi nelle condizioni di decriptare i reali equilibri geopolitici regionali, fornendo uno spiraglio di stabilità, dopo gli anni di caos scatenati dall’unilateralismo americano.

Il ruolo stabilizzante della Russia ha convinto anche gli alleati di Washington, come nel caso di Israele, rassicurato dal non indifferente contrappeso politico che Mosca potrà esercitare nei confronti della crescente influenza iraniana in Siria, schermando il governo di Assad dalle pretese che inevitabilmente gli Hezbollah libanesi avanzeranno nelle fasi successivamente alla risoluzione del conflitto. Al netto degli strali occidentali, Bashar al-Assad rimarrà al potere almeno per un altro mandato, guidando il processo di riconciliazione, da cui potrebbe anche scaturire una nuova compagine governativa, probabilmente guidata da un nuovo interlocutore politico designato da Mosca e “gradito” anche agli altri attori regionali, ma difficilmente sarà espressione di una realtà diversa da quella costiera siriana, dove sorgono le due basi militari russe. Realtà costiera tra Latakia e Ttartus, dove, tra l’altro sorgono le principali roccaforti alawite fedeli al Presidente Assad.

Russia Turchia Iran Rohani Putin Erdogan Siria
( L’inedita coalizione diplomatica composta da Russia, Iran e Turchia )

L’approccio strategico del Presidente russo Putin è riuscito a trasformare una crisi, come quella siriana, in un’opportunità geopolitica, scardinando addirittura la Turchia dall’orbita americana, convincendo Erdogan ad abbandonare i ribelli qaidisti di Idlib al loro destino, in cambio di un pragmatico sostegno contro le crescenti ambizioni indipendentiste curde, alimentate dagli USA, divenuto un “alleato virtuale“, sempre più scomodo. Al netto delle considerazioni mediatiche, la crisi siriana ha prodotto dei vincitori e degli sconfitti, e la Russia fa sicuramente parte dei primi, seguita a stretto giro dall’Iran, il secondo protagonista del conflitto, senza il cui supporto tattico sarebbe stato probabilmente impossibile reggere la pressione jihadista, soprattutto nelle prime fasi della guerra civile, quado l’esercito siriano sembrava all’angolo. Gli iraniani intervenendo in Siria hanno conservato il loro principale alleato regionale, essenziale per realizzare quel corridoio sciita, con cui contano di proiettare la propria influenza fino in Palestina, contro quella che viene tutt’oggi definita entità sionista.

LA TURCHIA E IL CONTENZIOSO CURDO 

Capitolo a parte merita la Turchia, uno dei maggiori sponsor della rivolta islamista siriana, passato dall’abbattere un bombardiere russo Su-24, alla concessione dello spazio aereo all’aeronautica russa nel giro di qualche mese, ribaltando gli equilibri di forza all’interno dello scacchiere siriano, strategia questa, approntata da Ankara dopo il fallito golpe a danno del presidente Erdogan, probabilmente salvato proprio da una soffiata russa, come lasciato intendere da alcuni analisti internazionali. Il repentino cambio di registro turco, è stato verosimilmente influenzato dal crescente sostegno americano alla causa indipendentista curda, già ben avviata in Iraq, e prossima ad essere innescata anche in Siria, dove è lecito pensare che in futuro le milizie curde YPG struttureranno un potenziale militare sufficiente a tentare la secessione della numerosissima comunità curda residente in Turchia, in strettissimo coordinamento con i terroristi marxisti del PKK.

Sulla questione curda ruoteranno gli equilibri della crisi siriana, non a caso gli Stati Uniti stanno già impiantando infrastrutture militari all’interno dei territori siriani occupati dalle milizie curde, palesando il reale movente geopolitico del loro “intervento anti-terroristico”, destinato paradossalmente a crescere proprio all’indomani della sconfitta dei terroristi islamisti, giudicata da Washington una condizione non sufficiente a ritirarsi, malgrado la loro presenza militare in Siria sia configuri come una palese violazione del diritto internazionale. I curdi, forti del mutevole sostegno americano, stanno giocando una partita rischiosissima, occupando un quarto del territorio siriano, tra l’altro abitato prevalentemente da arabi, per nulla disposti a sottostare al dominio politico di una minoranza etnica, riconducibile a meno de 9% della popolazione totale siriana. I curdi in Siria hanno due possibilità, la prima è quella di negoziare con il governo siriano la concessione di una autonomia amministrativa nei pochi cantoni di loro pertinenza, situati lungo i confini con la Turchia, la seconda è quella fidarsi degli USA, sperando di non essere abbandonati come i loro fratelli del Kurdistan iracheno, costretti a risottomettersi all’autorità centrale di Baghdad, dopo aver combattuto per anni l’ISIS per la gloria di Washington, finendo col perdere addirittura più di quanto possedessero all’inizio della crisi.

CURDI Milizie kurde filo-marxiste
( Milizie curde sodali del PKK marxista in Siria )

Pertanto, i curdi delle milizie YPG dovranno scegliere se cedere il controllo dei territori sottratti all’ISIS al governo di Damasco, o illudersi di replicare il percorso storico di Israele, imponendo unilateralmente la propria sovranità su di un territorio abitato da una maggioranza araba, che alla prima occasione si rivolterà contro il loro dominio, rischiando di annichilirli, tra la soddisfazione generale dagli attori regionali coinvolti, da cui, ad ogni modo, non potranno che aspettarsi un pieno isolamento internazionale. I curdi siriani presto dovranno scegliere se continuare a fare il gioco degli USA, vivendo assediati dai propri vicini, o se ricercare l’intermediazione russa, capitalizzando una larga autonomia simile a quella di cui godono i loro fratelli iracheni, giacché le prospettive per un grande Kurdistan indipendente restano comunque subordinate ad un improbabile conflitto su larga scala con Iran e Turchia, anche se le recenti proteste iraniane, potrebbero avvalorare questa prospettiva, nel medio periodo. Ad oggi, l’atteggiamento curdo sembra polarizzato sulle posizioni americane, addirittura le milizie YPG stanno effettuando operazioni di pulizia etnica, impedendo il ritorno dei rifugiati arabi nei loro rispettivi villaggi, come se ciò non bastasse queste milizie inneggiano ad Abdullah Ocalan, il leader dell’organizzazione terroristica marxista PKK, sotto la clamorosa protezione degli Stati Uniti, che tra l’altro tutt’oggi riconoscono il PKK come un organizzazione terroristica.

LA CRISI DELL’UNILATERALISMO USA

Se i turchi sono riusciti a pareggiare in extremis, gli Stati Uniti vanno sicuramente annoverati tra gli sconfitti ndella crisi siriana, avendo mancato l’obiettivo principale, ovvero il rovesciamento del governo di Bashar al-Assad, ed il conseguente defenestramento dei russi dal Mediterraneo, rischiando addirittura la fuoriuscita della Turchia dalla NATO. Gli americani hanno tentato in tutti i modi di entrare in Siria, scontrandosi sistematicamente contro il veto di Cina e Russia in Consiglio di Sicurezza ONU, salvo poi ottenere nel 2015, un mandato di contrasto al terrorismo islamico, legittimato dalla Risoluzione 2249, su cui è bene spendere qualche parola. La Risoluzione in questione, impone innanzitutto il rispetto dell’integrità, dell’indipendenza e della sovranità della Repubblica Araba di Siria, autorizzando specificatamente la predisposizione di azioni coerenti con il Diritto Internazionale, esclusivamente finalizzate al contrasto delle organizzazione terroristiche islamiste, mandato che gli Stati Uniti non rispettano in Siria, dove, al contrario dell’Iraq, operano con proprie truppe senza l’autorizzazione del governo presieduto da Bashar al-Assad, che a prescindere dalle speculazioni mediatiche, resta pur sempre l’unico attore legittimato ad esercitare la sovranità siriana.

USA-ribelli SIRIA
( Contingente militare USA che occupa illegalmente territori siriani in coalizione con terroristi islamisti )

Gli USA pertanto non solo non rispettano i vincoli imperativi predisposti dal Consiglio di Sicurezza ONU, ma addirittura si prodigano nel finanziare, addestrare e sostenere milizie sovversive, nel tentativo di rovesciare un governo non conforme ai propri interessi, facendo un uso strumentale della lotta al terrorismo. Oggi gli americani si trovano a dover fare una scelta, recuperare i vecchi rapporti con la Turchia, evitando di perdere uno dei suoi alleati NATO più strategici, o destabilizzando quel che resta del Medioriente, innescando la questione indipendentista curda anche in Iran e Turchia, ipotesi che potrebbe avvalorare la tesi che vuole gli Stati Uniti in ritirata, intenti a seminare il caos in tutta la regione mediorientale, impedendo così ai suoi avversari strategici di trarre vantaggio dal loro ritiro, ammesso che possa parlarsi di ritiro. Ad ogni modo, recentemente i russi hanno segnalato l’addestramento di alcuni miliziani arabi reduci dall’ISIS, che potrebbero dare vita ad una nuova compagine sunnita de-califfalizzata, a cui affidare l’amministrazione dei territori ad est dell’Eufrate, abitati prevalentemente da arabi, manovra questa, che permetterebbe ai curdi di svincolarsi da una realtà scomoda, agevolando il concentramento di mezzi e risorse esclusivamente al confine con la Turchia, anche se difficilmente rinunceranno ai pozzi di petrolio “ereditati” senza colpo ferire ad est di Deir Ez-Zor. Al netto delle considerazioni mediatiche, con l’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca, la politica estera americana continua a svilupparsi sullo stesso binario della precedente amministrazione Obama, puntando tutto su di una improbabile coalizione composta da islamisti, reduci marxisti curdi, realtà che teoricamente nulla avrebbero a che fare con gli interessi statunitensi.

LA SCONFITTA DELL’INEDITO ASSE ARABO-ISRAELIANO

Parallelamente alla questione curda, gli americani si ritrovano a fare scudo ad Israele, un altro sconfitto della crisi siriana, dislocando un proprio contingente militare a guardia dei sassi desertici adiacenti lo strategico valico di al-Tanf, dove insieme ad un manipolo di reduci del FSA si illudono di aver impedito all’Iran la creazione di quel “corridoio sciita” che è stato comunque realizzato con la conquista di Abu Kamal, una città al confine tra Siria e Iraq, che oggi collega virtualmente Teheran al Libano, affacciandosi direttamente sulla Palestina. Israele è preoccupato da questa prospettiva, giacché il fallito rovesciamento di Assad, pur deperendo la minaccia militare siriana, ha finito paradossalmente per avvantaggiare la lenta marcia iraniana verso la Palestina, ponendo una minaccia tattica reale a ridosso delle strategiche alture del Golan. Questo errore di calcolo, oggi costringe gli israeliani a fare affidamento sulla Russia di Putin, l’unico attore internazionale capace di limitare il peso degli iraniani e degli Hezbollah libanesi in Siria, impedendogli di piazzare al potere dei loro referenti politici, verosimilmente meno concilianti della dinastia Assad, che al netto della retorica ha mantenuto fede per oltre 40 anni alla tregua post-Kippur, evitando di replicare quelle incursioni aeree, che invece gli israeliani si sono abituati ad effettuare.

Arabia Saudita Qatar petro-monarchie
( I sovrani delle petro-monarchie prima dell’epilogo della crisi siriana )

Gli altri sconfitti della crisi siriana sono sicuramente le petro-monarchie del Golfo Persico, come l’Arabia Saudita ed il Qatar, spizzate da un epilogo totalmente diverso da quello libico, scontrandosi contro il patriottismo di una nazione araba non disposta a cedere al disfattismo caotico preventivato all’interno delle spavalde corti della penisola arabica. Addirittura, il conflitto siriano ha innescato un’imprevista resa di conti tra la dinastia saudita e quella al-Thani regnate in Qatar, concretizzatesi nello scontro tra gli islamisti fedeli al Qatar e alla Turchia di Ahrar al-Sham, prossimo all’ideologia dei Fratelli  Musulmani, e gli islamisti qaidisti filo-sauditi di Jabath al-Nusra. Oggi i due alleati sono contrapposti politicamente, con i sauditi spaventati dalla crescente influenza esercitata dall’apparato mediatico di Doha (Al-Jazeera), e dal pericoloso sostegno fornito alla fratellanza musulmana, ideologia islamista che da grimaldello contro gli avversari regionali rischia di rivoltarsi contro la dinastia custode delle due città sante islamiche, minacciando addirittura la loro posizione egemonica sul mondo islamico sunnita, oramai insidiata sempre più dall’avanzata dell’odiato Iran.

BILANCIO E PROSPETTIVE DELLA CRISI SIRIANA

Sul piano diplomatico, il processo di Ginevra promosso dall’ONU fatica a progredire, anche a causa dello spropositato peso politico riconosciuto alla fantomatica opposizione siriana, perlopiù composta da controversi personaggi da anni residenti all’estero, sostanzialmente privi di un reale controllo sulla miriade di milizie islamiste rimaste attive nel nord della Siria, polarizzatesi attorno alla città di Idlib, divenuta un coacervo di formazioni jihadiste in costante lotta tra loro, godendo della complicità della cosiddetta “opposizione democratica”, su cui grava la responsabilità di aver cooperato con organizzazioni terroristiche come al-Qaida, abile nel cambiare continuamente denominazione, fornendo ai media main-stram l’illusione della persistenza di una qualche forma di opposizione da sostenere contro il governo di Assad, reo di perseguitare i promotori di una rivolta guidata da fanatici islamisti urlanti, intenzionati a liberarsi da un ordine costituzionale laico che, con tutti i suoi difetti, gli impedisce di imporre la loro distorta visione religiosa, spacciandola impropriamente per una “rivoluzione democratica”. Si, perché purtroppo, i media di massa sostenendo la causa dei “ribelli siriani” hanno sostenuto, più o meno consapevolmente, quel terrorismo islamista che in occidente crediamo di combattere, inducendoci ad ignorare che la sedicente opposizione siriana è composta in larga parte da gente, che pur non condividendo il terrorismo, lo tollera tra le sue stesse fila, integrandolo strategicamente nella loro lotta politica.

Media main stream siria false flag propaganda
( Il ruolo dei media main stream nelle guerre moderne )

Oggi rimane da bonificare la sacca di Idlib, dove l’esercito siriano sta iniziando ad avanzare, tuttavia nelle prossime settimane è lecito aspettarsi una nuova campagna mediatica finalizzata a presentare la coalizione jihadista ivi dislocata, come vittima del “brutale regime di Assad”, con probabili nuovi “false flag” sul ricorso ad armi chimiche governativo contro i civili, armi che è bene ricordare sono state smantellate sotto vigilanza internazionale su richiesta USA, eccezion fatta per gli stock presenti nelle aree occupati dai terroristi, la cui credibilità, per i nostri media, risulta sicuramente maggiore di quella del governo di Damasco. La resistenza ad Idlib dipenderà dal modo in cui i turchi si smarcheranno dalla ribellione, infatti, se non riusciranno a cooptarla su di una soluzione negoziata, c’è il rischio di una cruenta resa dei conti nel nord della Siria. Parallelamente i ribelli meridionali asserragliati nei sobborghi damasceni di Ghouta, dovranno scendere a patti con il governo, perché non sussistono le condizioni per spezzare l’assedio in cui si trovano, pertanto è probabile che tenteranno un ultima escalation, per poi negoziare l’evacuazione verso Idlib, o Daraa, dove i fermenti islamisti rischiano di riversarsi verso i loro sponsor giordani, alle prese con i fermenti del tentato golpe all’interno della dinastia Hashemita. I ribelli di Daraa a differenza degli altri, sono composti in larga parte da disertori dell’esercito, confluiti sotto la sigla del FSA, una milizia rea di aver destabilizzato il proprio paese, non disdegnando il discretissimo supporto di Israele, il loro acerrimo nemico, che tutt’oggi occupa una porzione del proprio territorio (Golan).

In Siria certamente non esiste una democrazia di stampo occidentale, e probabilmente non esisterà mai, perché questo paese arabo si è sviluppato su di percorso storico-culturale, decisamente diverso da quello che ha caratterizzato per secoli lo sviluppo democratico occidentale, pertanto, più che un emulazione del modello democratico occidentale, è lecito aspettarsi una “via araba alla democrazia“, dove, inutile farsi illusioni, la religione continuerà inevitabilmente ad influenzare per lungo tempo le logiche politiche mediorientali, anche se non mancano i presupposti per una proficua razionalizzazione e armonizzazione dei precetti religiosi, soprattutto in paesi all’avanguardia come la Siria o l’Egitto, dove i retaggi del socialismo panarabo, all’origine del Partito Baath, continuano ad influenzare le élite politiche locali ed i costumi socio-culturali. In Siria si è combattuta una guerra, tra chi voleva una Siria governata da un regime islamista totalitario, e chi invece, voleva conservare l’ordine laico garantito da un regime autoritario egemonizzato dai baathisti, che con tutti i suoi difetti, garantiva quella pacifica coesistenza, oggi tanto desiderata da tutto il popolo siriano.

Bandiera della Repubblica Araba di Siria
( Bandiera della Repubblica Araba di Siria )

Dal conflitto sono usciti vittoriosi i secondi, sui cui graverà l’onere di stabilizzare la realtà politica della Siria di domani, inevitabilmente strutturata sui principi cardine del Partito Socialista Panarabo Baath, l’unica formazione politica di massa capace di garantire un ordine costituzionale laico, su cui dovranno necessariamente convergere tutte le future formazioni politiche, che inizieranno ad operare successivamente all’inevitabile processo di liberalizzazione politica, le cui tappe fondamentali saranno sicuramente scandite dalla Russia, già attiva nel processo di riconciliazione nazionale. Dunque, se c’è una possibilità di riformare la Siria, passa dal Partito Baath, il cui establishment dovrà abituarsi alla competizione, fino ad oggi vincolata dall’attuale struttura costituzionale autoritaria, che ha impedito la diversificazione della rappresentanza degli interessi presenti all’interno della società siriana, ma per arrivare a ciò, molti siriani dovranno prima rinunciare alle loro logiche politiche confessionali, dimostrando di essere realmente interessati ad intraprendere un reale percorso di democratizzazione.