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I RICORSI STORICI LUNGO IL CONFINE SIRO-GIORDANO

I PARALLELISMI TRA LA CRISI SIRIANA E IL SETTEMBRE NERO IN GIORDANIA

Dopo aver dedicato 4 articoli alla conoscenza della realtà storico-politica siriana ( Siria 1; Siria 2; Siria 3; Siria 4 ), e altri 4 alla conoscenza della guerra civile siriana ( Siria 5; Siria 6; Siria 7; Siria 8 ), più altri due dedicati ai rapporti bilaterali con Russia e USA, e gli ultimi inerenti il controverso uso di armi chimiche ed il ruolo russo in Siria, adesso proviamo ad analizzare la crisi siriana comparandola con la crisi del Settembre Nero in Giordania.
Infatti, considerando la crisi siriana dal versante meridionale di Daraa, in prossimità del confine con la Giordania, non è poi così difficile fare parallelismi con la crisi del Settembre Nero giordano degli anni 70. Ecco perché vale la pena ripercorrere gli eventi della crisi giordana, per comprendere meglio il clima che, a quanto pare, tutt’oggi continua a caratterizzare il confine siro-giordano, perché, come spesso accade, dal passato si riesce a dedurre elementi utili per comprendere il presente, e ciò vale soprattutto per il Medioriente.

LA CRISI DEL SETTEMBRE NERO

Successivamente alla prima guerra arabo-israeliana, e conseguentemente alla “nakba”, la Giordania ha preso il controllo della Cisgiordania, facendosi carico dell’integrazione della popolazione palestinese ivi residente. La gestione della realtà cisgiordana da parte delle autorità di Amman risultò parecchio complicata, soprattutto a causa dell’attivismo dei fedayn palestinesi impegnati nella resistenza contro le forze di occupazione israeliane che, a loro volta, non esitavano ad operare rappresaglie contro i palestinesi di al-Fatah, e addirittura contro le forze giordane, nonostante queste esercitassero regolari pressioni dissuasive presso la leadership palestinese. L’estensione delle rappresaglie israeliane contro i giordani, deluderà profondamente Re Hussein al-Hashimi, al punto da indurlo ad allinearsi, suo malgrado, con il fronte panarabo siro-egiziano guidato dal leader panarabo Nasser, successivamente uscito sconfitto dalla Guerra dei 6 giorni, scatenata dall’attacco a sorpresa predisposto dagli Israeliani, che nell’occasione riuscirono a strappare il controllo della Cisgiordania alla Giordania, impossessandosi della città di Gerusalemme.

L’occupazione israeliana della Cisgiordania incrementò ulteriormente l’attivismo della resistenza palestinese che iniziò ad accrescere sia il proprio prestigio che la consistenza delle proprie forze militari all’interno dei territori giordani, integrando migliaia di volontari locali tra le fila dei Fedayn, che tra l’altro godevano del supporto addestrativo di paesi come la Siria e l’Iraq, e del sostegno finanziario delle ricche monarchie del Golfo Persico. Il potenziamento delle organizzazioni palestinesi ridimensionò rapidamente l’autorità politica della monarchia hashemita giordana, soprattutto all’interno dei vasti campi profughi palestinesi, che L’OLP cominciò ad amministrare autonomamente, suscitando l’irritazione del governo di Amman, che in più di un’occasione non esitò a scontrarsi con i fedayn. Re Hussein di Giordania si trovò così in una pessima situazione politica, anche perché il suo supporto alla causa palestinese mal si conciliava con la sua alleanza strategica con gli Stati Uniti, che di Israele erano divenuti gli sponsor principali. Infatti, facendo sulla sua notevole influenza politico-economica, l’allora presidente americano Nixon, provò convincere i giordani a normalizzare i rapporti con gli israeliani, promuovendo una risoluzione ONU (N°242) che subordinasse la restituzione dei territori conquistati da Israele alla stipula di un trattato di pace definitivo.

Nixon USA Re Hussein di Giordania
( Re Hussein di Giordania incontra il Presidente USA Nixon )

La sfiducia dei palestinesi verso la monarchia hashemita giordana, ritenuta troppo accondiscendete verso gli Stati Uniti ed i loro alleati israeliani, polarizzò la resistenza palestinese verso il polo sovietico, attorno a cui gravitavano già paesi come l’Egitto, la Siria e l’Iraq, che avevano iniziato a coniugare il loro panarabismo all’ideologia socialista, senza tuttavia cedere alle impostazioni comuniste. La polarizzazione politica regionale, coinvolse anche la resistenza palestinese, che adeguandosi alle tesi socialiste, cominciarono ad identificare Re Hussein come il simbolo dell’ordine reazionario contiguo agli interessi sionisti nella regione mediorientale. La situazione politica cominciò inevitabilmente ad esasperarsi, alimentando il dualismo tra palestinesi e giordani, nonostante l’approccio conciliante del monarca hashemita, supportato con poco successo da intermediatori del calibro di Nasser, determinato nel tenere unito il fronte arabo, nonostante lo stesso leader egiziano non nutrisse particolari simpatie per la monarchia giordana.

Ben presto le simpatie americane giordane, indussero un po’ tutto il fronte arabo a prendere le distanze dal governo di Amman, accusato di impegnarsi poco nella lotta agli israeliani, sicché iniziarono a sostenere con decisione l’attivismo dei fedayn palestinesi, mettendo sotto pressione Re Hussein che a quel punto decise di reagire, chiedendo ed ottenendo dagli USA la garanzia di non essere attaccato dagli israeliani durante le operazioni anti-palestinesi che lo stato maggiore giordano intendeva predisporre al fine di ridimensionare il peso politico e militare delle milizie palestinesi. La situazione precipitò definitivamente quando Re Hussein venne rese oggetto di un fallimentare attentato palestinese, a cui il monarca di Amman reagì ordinando il bombardamento dei campi profughi palestinesi presenti nel suo paese. Lo scontro tra palestinesi e giordani durò qualche giorno, prima di essere congelato in seguito ad un accordo di tregua tra le due parti, che sembrò favorire l’attenuamento del clima politico giordano, rendendolo meno ostile ai palestinesi che pertanto riuscirono a rafforzarsi ulteriormente sul piano politico, erodendo ulteriormente l’autorevolezza della monarchia retta da Re Hussain, oramai quasi sul punto di cadere.

La crisi politica venne rilanciata da un nuovo fallimentare attentato palestinese contro Re Hussein, seguito da un’operazione militare organizzata dai fedayn per deporre definitivamente la dinastia hashemita dal potere. L’operazione palestinese venne resa possibile dal determinante supporto del leader baathista siriano Salah Jadid, intenzionato ad inglobare la Giordania nel progetto della “Grande Siria”, una realtà panaraba strategicamente collocata all’interno dell’orbita socialista sovietica. I siriani supportarono con le proprie forze corazzate la poderosa avanzata iniziale dei fedayn palestinesi in Giordania, mettendoli in condizione di assediare la capitale Amman. Il governo giordano incapace di far fronte alla minaccia palestinese, efficacemente supportata dall’esercito siriano, tentò di coinvolgere inutilmente il Regno Unito, per poi riuscire ad ottenere il sostegno degli Stati Uniti, che dislocarono rapidamente la 6° Flotta nel Mediterraneo orientale, a ridosso di Israele, per prevenire la caduta del governo hashemita, che avrebbe inesorabilmente agganciato la Giordania all’orbita sovietica.

Hafiz al-Assad Salah Jadid Siria Partito Baath
( I due leader baathisti siriani: Hafiz al-Assad al centro e Salah Jadid a destra )

Il dislocamento del dispositivo militare americano, innescò una crisi politica in Siria, dove l’ala radicale socialista di Jadid si contrappose alla componente baathista più pragmatica guidata dal Ministro della difesa Hafiz al-Assad, che limitò l’impegno siriano a supporto dei fedayn, a cominciare dalla copertura aerea alle milizie palestinesi. Il supporto siriano ai fedayn venne successivamente revocato, conseguentemente alla destituzione di Jadid per mano del generale Hafiz al-Assad, sviluppo questo, che indusse l’establishment baathista iracheno a ritirare le proprie forze corazzate dal confine giordano, da dove avrebbero dovuto proiettarsi a sostegno dell’iniziativa palestinese.
In quel frangente, anche l’aviazione israeliana prese posizione, sostenendo indirettamente la Giordania, facendo sorvolare i propri jet sulle posizioni siriane, anche se astenendosi dalla battaglia. Successivamente al disimpegno siriano, i fedayn rimasero esposti all’offensiva giordana coordinata da ufficiali pakistani, presumibilmente inviati su pressioni britanniche e saudite. Infatti, il fronte arabo pur se accomunato dalla solidarietà alla causa palestinese, risultava polarizzato tra la fazione socialista panaraba filo-sovietica e la fazione monarchico-conservatrice filo-occidentale. Ad ogni modo, la crisi del Settembre nero si concluse qualche giorno dopo per vie diplomatiche, su mediazione dell’Egitto di Nasser, favorendo il ripristino della sovranità hashemita sulla Giordania, costringendo i fedayn palestinesi a ritirarsi dal paese, spostando le proprie basi tra Siria e Libano.

I PARALLELISMI PANARABISTI

L’odierna crisi siriana, come è noto, ha avuto inizio a Daraa, una città situata proprio al confine tra Siria e Giordania, proprio dove si era consumata la crisi del Settembre Nero. La storia e la cronaca contemporanea ci ricordano l’endemica turbolenza del confine siro-giordano, probabilmente perché questi due paesi costituiscono un’unica realtà socio-culturale separata artificialmente da logiche geopolitiche straniere, da cui sono derivate due entità statali distinte, nonostante fossero sostanzialmente riconducibili alla medesima comunità araba, identità che diversi leader hanno tentato di reintegrare promuovendo la restaurazione della “Grande Siria”. Infatti, il progetto della Grande Siria è stato a lungo perseguito da leader arabi di diversa estrazione politica, dai panarabisti di estrazione socialista particolarmente attivi in Siria, ai conservatori contigui agli ambienti monarchici hashemiti regnanti in Giordania. Monarchici e socialisti-panarabi, pertanto, si sono ritrovati a perseguire a lungo lo stesso obiettivo, predisponendo approcci, strategie e alleanze profondamente diversi tra loro. Nello specifico, i siriani perseguivano una formula di reintegrazione repubblicana, mentre i giordani perseguivano una formula monarchica, formule che comunque prevedevano l’integrazione dell’Iraq, dove fino al cruento golpe militare del 1958 aveva regnato Re Faysal II, un altro esponente della dinastia hashemita.

Grande Siria panaraba
( Il progetto della Grande Siria panaraba )

L’attuale crisi siriana, come è noto, è stata innescata da motivazioni politico-religiose, tuttavia, in fin dei conti, l’attivismo islamista che contraddistingue la miriadi di formazioni ribelli attive in Siria, non è altro che l’ennesimo tentativo di perseguire il progetto di reintegrazione della “Grande Siria”, facendo leva sull’islam, piuttosto che sull’etnia araba, su cui avevano puntato sia i socialisti-panarabi, che gli hashemiti. D’altronde, il ripristino della situazione antecedente gli accordi Sykes-Picot poteva essere perseguita sia attraverso una formula panarabista, che attraverso una formula panislamista che, seppur con mezzi diversi, sembrava idonea a garantire comunque la realizzazione del medesimo risultato, ovvero quello di reintegrare una realtà socio-culturale disintegrata artificiosamente da logiche geopolitiche straniere, ricompattandola attorno ad un elemento indigeno come l’islam, che probabilmente si configurava come un catalizzatore di consenso più idoneo a coinvolgere le masse, che spesso identificavano l’ideologia socialista-panaraba all’ennesimo tentativo straniero di condizionare il corso degli eventi mediorientali, introducendo dinamiche finalizzate a disgregare ulteriormente la comunità mediorientale post-ottomana. Oggi è impossibile non constatare la rilevanza dell’influenza panislamista all’interno della crisi siriana, giacché la miriadi di formazioni ribelli attive in Siria si ispirano all’ideologia islamista, seppur declinata su vari gradi di radicalismo. Infatti, al netto delle peculiarità dottrinali, l’islam oltre ad essere una religione, costituisce l’unico elemento di coerenza socio-politico su cui fare leva per compattare una società fondamentalmente disorganizzata sul piano politico, dove il Partito Socialista Panarabo Baath risultava una delle poche organizzazione politiche capaci di strutturarsi, organizzarsi e imporsi come movimento politico di massa all’interno del contesto siriano.

I ribelli siriani, pur non conoscendosi e non condividendo piattaforme di coordinamento comuni, hanno avuto modo di instaurare un proficuo rapporto fiduciario, facendo comune riferimento alla loro comune fede islamica, che in quanto fede religiosa, si configura come il più solido ed efficace dei catalizzatori di fiducia popolare esistenti. Questa peculiarità, non solo ha fornito ai ribelli siriani un motivo per coalizzarsi, ma ha anche permesso di integrare nella loro “rivoluzione” moltissimi foreign fighters provenienti da svariati paesi, pronti a integrare le fila di quella che potrebbe essere definita “l’internazionale islamista”, concetto che nella logica non si discosta poi tanto da quell’internazionale socialista che nel secolo scorso ha fornito alle masse di mezzo mondo un “motivo credibile” per coalizzarsi contro un nemico, che ieri erano gli infedeli capitalisti, e che per oggi sono gli infedeli religiosi. Infatti, gli islamisti che combattono in Siria, non lo fanno tanto per la Siria, ma lo fanno essenzialmente perché convinti di poter integrare realtà etnico-nazionali diverse, superando il concetto di stato nazionale classico di derivazione occidentale, un po’ come ha dimostrato l’ISIS, che non perseguiva la semplice conquista della Siria o dell’Iraq, ma l’instaurazione di un califfato islamico dai confini indefiniti, potenzialmente estendibili ben oltre i confini mediorientali classici, coinvolgendo tutto il mondo. Ciò contraddice la tesi, molto diffusa in occidente, secondo cui la crisi siriana va considerata come un fenomeno circoscritto alla realtà siriana ed irachena, che ha poche possibilità di riverberarsi altrove, minaccia, la cui portata indefinita è stata invece ben intuita da paesi come la Russia, che non ha esitato ad intervenire per prevenire il contagio della regione caucasica, particolarmente esposta a tali pericoli.

I PARALLELISMI PALESTINESI

L’attivismo palestinese nella crisi del Settembre Nero giordano venne sfruttato strategicamente dalla fazione radicale baathista siriana guidata da Salah Jadid per rovesciare la monarchia hashemita di Amman, favorendo le condizioni migliori per integrare la Giordania all’interno dell’ambizioso progetto della “Grande Siria”, che tra l’altro, avrebbe permesso un’efficace decentramento delle risorse militari da contrapporre alle forze di occupazione israeliane in Palestina, favorite dal tiepido approccio filo-occidentale che la monarchia hashemita aveva mantenuto fin dall’inizio del conflitto arabo-israeliano. Ad ogni modo, i palestinesi erano ben consci di essere strumentalizzati dai baathisti di Damasco, tuttavia, a livello strategico avevano convenienza nell’adeguarsi ai piani siriani, giacché il loro rafforzamento in Giordania avrebbe permesso di potenziare un fronte tradizionalmente debole, incrementando le possibilità di mettere in seria difficoltà le forze di occupazione israeliane in Cisgiordania.

Anche nell’odierna crisi siriana, i palestinesi, seppur in maniera meno rilevante che nella crisi del Settembre Nero, hanno ricoperto un ruolo non indifferente, soprattutto nei sobborghi di Damasco, dove i campi profughi palestinesi, non hanno esitato a schierarsi a fianco dei ribelli, aderendo addirittura all’ISIS, la peggiore delle formazioni islamiste attive in Siria. I palestinesi rifugiatisi in Siria, hanno pertanto contribuito a destabilizzare l’ordine politico interno, replicando su scala ridotta il copione giordano del Settembre Nero, rivoltandosi contro gli alleati baathisti di ieri, ritenuti rei di averli illusi, convincendoli a rovesciare la monarchia hashemita, salvo poi revocare il proprio sostegno, lasciandoli in balia della spietata reazione giordana. Il coinvolgimento palestinese nella crisi siriana, ha seguito logiche di tipo religioso, giacché la gran parte dei rifugiati presenti in Siria appartiene alla confessione sunnita, a cui fanno riferimento la totalità delle formazioni ribelli siriane, che tra l’altro, condividono alcuni facoltosi sponsor arabi con l’organizzazione palestinese Hamas, che in occasione della crisi ha preso le distanze dal governo siriano, a cui erano stati storicamente legati. Ad ogni modo, se è vero che i campi profughi palestinesi della capitale siriana si sono schierati con i rivoltosi islamisti più radicali, va comunque segnalato che non tutti i palestinesi si sono adeguati, giacché molti sono stati i palestinesi che hanno deciso di supportare attivamente la lotta di liberazione a fianco dell’esercito siriano, attraverso milizie come Liwa al-Quds (Brigata Gerusalemme) o il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina che si sono distinti nel corso delle operazioni di liberazione di importanti città siriane, da Aleppo a Deir Ezzor, passando da Damasco, dove hanno recentemente ripreso possesso del campo profughi di Yarmouk, occupato dalle fazioni palestinesi legate all’ISIS.

I PARALLELISMI GEOPOLITICI

L’iniziativa palestinese in Giordania, difficilmente avrebbe potuto avere luogo senza il sostegno della Siria, che sotto la leadership di Salah Jadid si ritrovava saldamente agganciata all’orbita sovietica. L’Unione Sovietica, che nel 1958 era riuscita a favorire il rovesciamento della dinastia hashemita di Baghdad, sottraendo agli Stati Uniti un alleato mediorientale fondamentale, provò a replicare il copione iracheno anche in Giordania, dove la locale dinastia hashemita garantiva a Washington la propria presenza strategica, oltre che un efficacissimo schermo arabo con cui garantire la sicurezza israeliana. I russi puntavano dunque a strappare la Giordania dal controllo occidentale, e nel farlo hanno favorito le ambizioni panarabe di Jadid, che a sua volta ha avuto modo di sfruttare l’attivismo palestinese, convincendo i fedayn a rovesciare la monarchia hashemita, rendendo l’accerchiamento di Israele ancora più stringente, giacché l’incremento del potenziale offensivo del fronte arabo avrebbe permesso di coordinare meglio le risorse militari in prossimità della Cisgiordania, soprattutto quelle irachene, di cui la monarchia hashemita si fidava poco, memori della fine che i liberi ufficiali di Baghdad avevano riservato a Re Faysal II solo qualche anno prima. Israele infatti avrebbe avuto notevoli difficoltà a gestire una coalizione araba ben più sincronizzata, e soprattutto avrebbe scontato la mancanza di un governo ostile ma particolarmente conciliante come quello hashemita, che pur rimanendo formalmente alleato del fronte arabo, rimaneva particolarmente sensibile alle influenze americane, tanto da fornire regolarmente informazioni sensibili, inerenti gli indirizzi strategici dei suoi scomodi alleati.

Se è vero che la conquista siro-palestinese della Giordania avrebbe incrementato il potenziale del fronte arabo, tuttavia difficilmente l’Unione Sovietica avrebbe permesso ai suoi alleati arabi di abbattere lo stato israeliano, giacché per Mosca la conquista siro-palestinese di Amman avrebbe convinto gli israeliani a ricollocarsi sul binario socialista originario, allontanandoli dal blocco occidentale, con cui all’epoca intratteneva rapporti buoni, ma notevolmente più deboli di quelli attuali. L’installazione dei siriani in Giordania, avrebbe inevitabilmente reso l’URSS un interlocutore imprescindibile per gli israeliani, che a quel punto avrebbero potuto contare su di un mediatore affidabile che avrebbe potuto favorire la conclusione di un accordo di pace definitivo con il fronte arabo, che al netto della retorica, non aspettava altro che una vittoria da capitalizzare sul tavolo negoziale, da cui speravano di trarre una soluzione politica accomodante per tutti, che coniugasse l’esigenza di una patria palestinese con quella della sicurezza del progetto sionista, oramai considerato da molti leader come una realtà francamente ineluttabile. D’altronde, persino le fazioni arabe più anti-sioniste, avrebbero dovuto cedere alle pressioni di Mosca, che non avrebbe avuto particolari difficoltà nel convincerle della necessità di un accordo con gli israeliani, minacciando di revocare gli indispensabili aiuti economici e militari, da cui all’epoca dipendevano i suoi alleati mediorientali. A quel punto, gli israeliani sarebbero stati nelle condizioni di scegliere tra la precarietà regionale garantita dall’egemonia militare USA, e la possibilità di una normalizzazione dei rapporti con i propri vicini, ipotesi che avrebbe agevolato la stabilizzazione regionale, permettendo ai paesi della regione di risparmiare ingenti risorse finanziarie, dirottandole dalle spese militari allo sviluppo economico interno, agevolando l’apertura di una proficua stagione di cooperazione, smorzando i velleitarismi egemonici regionali.

Il fallimento dell’iniziativa palestinese in Giordania, ha pertanto vanificato le prospettive risolutorie del conflitto arabo-israeliano, ripristinando lo status-quo strategico governato dalle due superpotenze, contribuendo a rendere Israele uno stato fortezza, prigioniero della propria egemonia militare, che tutt’oggi gli preclude qualsiasi possibilità di pacificazione politica con i suoi vicini arabi, che a loro volta, sono stati indotti a perpetuare effimere logiche dualistiche, a cui nessuno oggi riesce a fornire una valida alternativa politica. Il ripristino dello status-quo regionale, ha costretto arabi ed israeliani a fossilizzarsi all’interno di un rapporto conflittuale che essenzialmente danneggia gli interessi di entrambi, rendendoli pedine geopolitiche nelle mani di paesi terzi. Paradossalmente, gli Stati Uniti sono riusciti a conservare il proprio controllo sulla Giordania, grazie ad Hafiz al-Assad, che non solo ignorò le direttive di Jadid di sostenere l’avanzata palestinese verso Amman, ma addirittura predispose il suo arresto, temendo che dinnanzi al paventato intervento militare americano, i sovietici si sarebbero defilati, lasciandoli in balia di eventi a cui difficilmente avrebbero potuto far fronte autonomamente. Addirittura, c’è la possibilità che la rimozione di Jadid, per mano di Assad, sia stata in qualche modo favorita indirettamente dagli USA, speculazioni che sarebbero confermate dai buoni rapporti tra Assad e l’allora presidente Nixon, ospitato ufficialmente a Damasco qualche anno dopo la crisi del Settembre nero giordano, a cui seguì il relativo raffreddamento dei rapporti bilaterali con Mosca, che di Jadid era stata sponsor principale.

Siria Assad USA Nixon
( Il Presidente USA Nixon incontra il Presidente siriano Assad )

L’odierna crisi siriana, al pari della crisi del Settembre nero giordano, è stata innescata anche da elementi di natura geopolitica che si sono articolati sottotraccia all’ombra dei protagonisti coinvolti nel conflitto. Il vuolto di potere conseguente alla caduta dell’URSS, ha permesso agli Stati Uniti di vanificare lo status-quo mediorientale, rovesciando il governo baathista iracheno presieduto da Saddam Hussein, agevolando qualche anno più tardi anche il rovesciamento del governo baathista siriano presieduto da Bashar al-Assad, due governi storicamente allineati a Mosca. Se nel caso iracheno Washington non ha esitato ad intervenire direttamente, nel caso siriano ha preferito sostenere indirettamente il fronte ribelle islamista, tentando di dipingerlo come una coalizione di “freedom fighters” desiderosi di istaurare una democrazia di stampo occidentale, un po’ come avvenne con i talebani in Afghanistan, quando mujaheddin del calibro di Osama Bin Laden trovarono credito in funzione anti-sovietica. Gli americani, successivamente alla Guerra di Jugoslavia, registrarono l’incapacità russa nel difendere i suoi partner storici, ritenendo possibile sottrarre la Siria all’influenza strategica russa, senza colpo ferire.

Perdere la Siria, per i russi avrebbe significato perdere l’unico punto di proiezione della propria influenza strategica in Medioriente e nel Mediterraneo, giacché nella città costiera di Tartus sorgeva l’unico approdo logistico della Flotta del Mar Nero, che altrimenti avrebbe avuto notevoli difficoltà a presidiare i mari caldi, a cui Mosca storicamente ambisce. Per Washington, eliminare l’influenza russa in Siria, avrebbe permesso di imporre la propria egemonia in Medioriente, azzerando consequenzialmente il potenziale della marina russa, nel Mediterraneo, soprattutto se considerata la defezione ucraina, che nel 2014, qualche mese dopo l’inizio della crisi siriana, rischiò di privare i russi persino degli strategici approdi della Crimea sul Mar Nero. Senza il contrappeso russo in Siria, gli USA avrebbero facilmente mutato lo status-quo mediorientale, piegando tutta la regione all’egemonia israeliana, favorendo la risoluzione unilaterale del conflitto arabo-israeliano. Sul piano regionale poi gli americani avrebbero potuto innescare l’attivismo dei curdi del nord-est siriano, agganciandoli agli indipendentisti del Kurdistan iracheno e del PKK turco, favorendo la creazione del nucleo di un futuro stato curdo incastonato strategicamente al centro del Medioriente.

I piani americani in Siria sono stati stravolti dall’intervento militare della Russia, che accantonando l’approccio riluttante jugoslavo degli anni 90 post-sovietici, è riuscita a riproporsi prepotentemente sulla scena internazionale, puntellando il governo siriano presieduto da Bashar al-Assad, riqualificandosi come nuovo interlocutore mediorientale, predisponendo un approccio diplomatico flessibile incentrato sull’esigenza di stabilità, recentemente avanzata dalla gran parte dei paesi mediorientali, soprattutto dopo l’inconcludente interventismo unilaterale americano. Il coinvolgimento della Russia in Medioriente è stato accolto positivamente un po’ da tutti i paesi della regione, con cui Mosca, a differenza di Washington, coltiva ottimi rapporti e nessuna ostilità. Infatti se gli USA in Medioriente contano pochi alleati, molti stati compiacenti e alcuni nemici, la Russia, al contrario, in Medioriente non conta alcun nemico, proprio a causa del suo proficuo approccio geopolitico multilaterale, che promuove soluzioni mutuamente vantaggiose per tutti i paesi della regione, logica totalmente antitetica all’approccio unilaterale americano che avvantaggia alcuni paesi a danno di molti altri. Paradossalmente gli USA oggi si ritrovano a perseguire la rimozione di Bashar al-Assad dal potere, sebbene quest’ultimo abbia ereditato il pragmatismo del padre Hafiz, che in occasione della crisi giordana evitò il rovesciamento della dinastia Hashemita in Giordana, congelando il fronte del Golan occupato da Israele, dove non si sparava un colpo dalla Guerra del Kippur degli anni 70.

In conclusione, possiamo sostenere che il confine siro-giordano dimostra che la storia è solita ripetersi, infatti, così come l’azzardo sovietico in Giordania si è arenato conseguentemente al paventato intervento americano, oggi l’azzardo americano in Siria si arena consequenzialmente all’intervento russo, il che potrebbe indurci a pensare che in Medioriente il risultato più consueto rimane il pareggio, un risultato che scontenta tutti, ma di cui nessuno sembra riuscire a fare a meno, all’interno di una regione in cui da anni impera la stabilità caotica.

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