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LE PRIORITA’ DELLE POTENZE IN SIRIA

LE PRIORITA’ GEOPOLITICHE IN GIOCO IN SIRIA

Dopo aver dedicato svariati articoli al contesto siriano, adesso proviamo ad analizzare la dimensione geopolitica della crisi siriana. Ciò che rende la crisi siriana particolarmente rilevante, è sicuramente il coinvolgimento delle principali potenze internazionali, che in Siria perseguono interessi divergenti. Ebbene, proviamo a comprendere cosa cercano di ricavare dalla crisi siriana questi paesi, cercando di individuare quelle che sono le loro priorità strategiche, quelle a cui non possono rinunciare senza che ciò presupponga un loro fallimento. La nostra riflessione parte dal presupposto che il nostro non è un mondo ideale dove esistono vincitori netti che ottengono tutto quello che desiderano, ma un mondo imperfetto, tra le cui pieghe si celano opportunità e rischi che possono essere capitalizzati solo dai soggetti internazionali più abituati a far di necessità virtù, adeguandosi pragmaticamente agli imprevedibili sviluppi prodotti da una realtà internazionale multilaterale e sempre più composita. In questo nuovo articolo proveremo dunque ad individuare i moventi e le priorità strategiche dei principali paesi coinvolti nella crisi siriana, ci riferiamo alla Russia, agli USA, all’Iran, ad Israele, alla Turchia e all’Arabia Saudita, lista a cui sottraiamo paesi meno rilevanti come Il Regno Unito, la Francia o il Qatar, che dato il loro scarso potenziale sono costretti ad andare a rimorchio dei loro alleati, godendo di scarsa autonomia operativa.

LE PRIORITA’ DELLA RUSSIA

La Russia è intervenuta in Siria, ufficialmente per combattere il terrorismo islamista, accogliendo la richiesta di supporto militare del governo baathista presieduto da Bashar al-Assad, messo alle strette dall’impetuosa avanzata delle milizie islamiste, a cui l’esercito siriano sembrava non riuscire più a tenere testa, sebbene fosse uno degli eserciti arabi più preparati della regione mediorientale. La Russia, come è noto, non è più l’Unione Sovietica, e non persegue più l’utopico obiettivo di esportare il modello comunista in giro per il mondo, missione che oggi contraddistingue la politica estera degli Stati Uniti, con la semplice differenza che al posto del marxismo, promuove l’esportazione del suo nuovo modello liberal-socialista. Ad ogni modo, più che la componente ideologica, oggi, Mosca sconta soprattutto la carenza delle risorse economiche e militari a cui è stata abituata per gran parte del secondo dopoguerra. Pertanto, al netto del suo poderoso arsenale nucleare, la Russia di sovietico ha conservato relativamente poco, solo per fare un esempio, le sue forze armate convenzionali sono composte in larga parte da mezzi militari d’epoca sovietica, molti divenuti obsoleti, altri ancora efficaci e alcuni oggetto di recenti e importanti aggiornamenti.

Entrando nel merito della crisi siriana, la Russia aveva nella Siria l’ultimo dei suoi alleati mediorientali, indispensabile per continuare a ricoprire un ruolo nella regione, soprattutto nell’annoso conflitto israelo-palestinese. Sotto la presidenza di Putin, la Russia è riuscita ad arrestare il processo di sfaldamento post-sovietico degli anni 90, puntellando i suoi interessi fondamentali interni, risanando l’economia interna e la struttura di quella che fu l’armata rossa. Senza la lungimirante governance di Putin degli scorsi anni, la Russia non avrebbe avuto modo di intervenire nella crisi siriana, ritrovandosi costretta a replicare il copione jugoslavo, quando Mosca non riuscì ad impedire alla NATO di prendere d’assalto i Balcani. Ecco perché Putin è particolarmente temuto in occidente, perché non solo è riuscito a bloccare il processo di balcanizzazione della Russia, ma è riuscito nell’impresa di restaurare razionalmente l’architettura della Federazione Russa, ponendo le condizioni per il suo ritorno sullo scacchiere internazionale, sostituendo le antiche e insostenibili velleità imperialiste sovietiche, con un efficacissimo approccio geopolitico flessibile.

Il successo della riorganizzazione della nuova Russia impostata dalla lungimirante leadership di Putin, ha messo Mosca nelle condizioni di intervenire nel tentativo di destabilizzazione della Siria, impedendo il rovesciamento del governo baathista presieduto da Bashar al-Assad. Certamente l’intervento della Russia in Siria non è stato dettato solo dalla tradizionale partnership siro-russa, ma soprattutto da esigenze strategiche legate essenzialmente alla costa siriana, dove sorge la base logistica navale di Tartus, che dagli anni 70 consente alla flotta russa del Mar Nero di approvvigionarsi, permettendo a Mosca una presenza stabile nel Mar Mediterraneo, altrimenti impossibile. La costa siriana rappresenta dunque una delle priorità imprescindibili per la Russia, che tra l’altro, lega indissolubilmente gli interessi strategici di Mosca alle sorti del Presidente siriano Bashar al-Assad, giacché proprio all’interno della costa siriana la minoranza alawita, di cui è principale esponente, è maggioritaria. Ecco perché Assad va considerato un elemento prioritario imprescindibile per Mosca, giacché perderlo significherebbe perdere il supporto della popolazione dove sorgono i loro interessi strategici fondamentali, parliamo della storica base navale di Tartus, e della nuova base aerea di Khmeimim, nei pressi di Latakia.

Siria base della marina Russia di Tartus nel mediterraneo
( Nave militare russa ancorata nel porto siriano di Tartus )

Dunque, le priorità imprescindibili della Russia sono la costa siriana tra Tartus e Latakia, e la consequenziale permanenza di Assad al potere, che tuttavia nel medio-lungo periodo potrebbe anche essere rinegoziata, concordandone la sostituzione con un nuovo esponente alawita, come ad esempio il Generale al-Hassan delle Tiger Force. Ad ogni modo, questa scala di valori avrebbe teoricamente permesso agli Stati Uniti di forzare la mano, avviando una decisa campagna di copertura aerea ai ribelli islamisti, che fino a qualche mese fa infestavano i sobborghi della capitale Damasco, costringendo Assad a rifugiarsi nelle sue roccaforti costiere, dove avrebbe potuto formare uno stato alawita, che avrebbe comunque permesso alla Russia di conservare le sue preziose basi militari mediterranee. Questo scenario non si è realizzato, perché nonostante i raid di rappresaglia USA conseguenti ai “presunti attacchi chimici”, Washington si è astenuta scrupolosamente dal violare lo spazio aereo siriano controllato dalla contraerea russa, limitandosi a colpire obiettivi di scarso valore strategico, evitando di bersagliare gli asset fondamentali dell’esercito siriano, e soprattutto guardandosi dal minacciare il palazzo presidenziale di Assad.

Ecco spiegato perché dinnanzi ai reiterati raid predisposti da USA e Israele, i russi non hanno abbozzato un seppur minima reazione, proprio perché evidentemente hanno da tempo definito in modo inequivocabile la “linea rossa” che Putin, al contrario dei suoi colleghi americani, ha tracciato con inchiostro indelebile, senza sentire il bisogno di riaffermarla o rinegoziarla ogni tre mesi a mezzo stampa. Solo la comprensione delle priorità imprescindibili della Russia ci permette di comprendere il perché i russi non reagiscano ai frequenti raid israeliani ed occidentali contro gli “obiettivi iraniani” in Siria. Infatti, per Mosca, l’Iran pur essendo un partner strategico, non è un alleato per cui sarebbe disposta ad ingaggiare un escalation militare diretta con gli Stati Uniti o Israele, opzione che si riservano al remoto caso in cui gli USA o Israele decidano di bombardare le loro basi militari, o provino ad assassinare il Presidente Assad, che tra l’altro, sembra sia protetto a vista da spetsnaz russi. Gli iraniani sono consapevoli delle priorità russe, e comprendono benissimo che Mosca non sia per nulla disposta ad accollarsi i costi di una guerra non loro, tuttavia apprezzano il loro approccio neutrale alle loro iniziative strategiche in Siria.

Detto questo, la sicurezza delle basi militari russe lungo le coste siriane, se non è direttamente minacciata dagli Stati Uniti, lo è certamente dai ribelli islamisti arroccati nella vicina sacca di Idlib, la cui prossimità espone le infrastrutture militari russe a possibili tiri di artiglieria o a incursioni predisposte con l’ausilio di rudimentali droni. Queste minacce rendono insostenibile per la Russia la persistenza della sacca ribelle di Idlib patrocinata dai turchi, e verosimilmente destinata ad essere smantellata in modo più o meno drastico, o annichilendo il fronte jihadista, o disarmandolo, costringendolo a ritirarsi definitivamente in Turchia. Il recente accordo tra Erdogan e Putin sembra avvalorare l’ipotesi del disarmo ribelle, ma tutto dipenderà da come il fronte islamista recepirà una soluzione che per loro si configura come una sostanziale disfatta. In ultima analisi, al netto del clima pesante che si respira in Siria, un confronto diretto tra Russia e Stati Uniti costituisce un’ipotesi altamente improbabile, ma comunque possibile, qualora Washington decidesse di cambiare registro, azzardando l’assassinio del Presidente Bashar al-Assad, o il rovesciamento del suo governo, ipotesi che a quel punto aprirebbero scenari imprevedibili ed altamente pericolosi.

LE PRIORITA’ DELL’IRAN

L’Iran, come è noto, è il principale alleato della Siria, con cui condivide l’ostilità nei confronti di Israele, tutt’oggi definito come “entità sionista“. Grazie allo strategico supporto siriano, negli ultimi decenni l’Iran è riuscito a patrocinare lo sviluppo del partito sciita Hezbollah, permettendogli di sviluppare un efficacissimo apparato militare, capace di soverchiare persino le forze armate regolari libanesi. Nel 2006, le non indifferenti capacità militari delle milizie di Hezbollah riusciranno addirittura a respingere l’invasione israeliana del Libano, inducendo Tel Aviv a riconsiderare la portata effettiva del loro potenziale militare, e di conseguenza, anche quello dei loro alleati persiani. Negli ultimi anni, si crede che proprio attraverso la Siria, Teheran sia riuscita ad incrementare esponenzialmente il potenziale militare di Hezbollah, fornendogli svariate migliaia di missili a corto raggio, favorendone addirittura la fabbricazione in loco, all’interno di fabbriche corrazzate interrate. Oltre che in Libano, è più che lecito pensare che l’Iran abbia rifornito di missili a medio raggio anche la Siria. Missili di derivazione nordcoreana, compatibili all’uso di testate chimiche, che fino a qualche anno fa erano nelle disponibilità dell’esercito siriano. L’ostilità iraniana verso Israele è giustificata dall’intenzione di voler liberare la Palestina dalla loro occupazione, tuttavia, il seppur notevole potenziale militare di Teheran, non è ancora in grado di soverchiare le solide difese israeliane, anche se non è affatto detto che tra qualche tempo questo stato di cose non cambi, ed è probabilmente a questo che sembra puntare il governo iraniano, consolidando la propria presenza in Siria.

Dunque, la “vulgata geopolitica” vuole l’Iran intento a costruire un “corridoio sciita” con cui proiettare la propria influenza dal Golfo Persico fino al bacino Mediterraneo, nel tentativo di ribaltare gli equilibri di forza a favore dei palestinesi, mettendoli nelle condizioni di sconfiggere le forze di occupazione israeliane. Tuttavia, questo ambizioso scenario, per quanto possibile, sembra destinato a rimanere un mero esercizio ideologico con cui occultare obiettivi strategici, che essendo fondamentalmente razionali, hanno ben poco di ideologico, ci riferiamo ad interessi di natura economica, come quelli derivanti dall’esportazione di gas naturale verso il ricco mercato energetico europeo.
Questo spunto analitico, ci suggerisce che dietro il predetto corridoio ideologico sciita si celi un più realistico corridoio energetico che dal Golfo Persico attraversi Iraq e Siria giungendo in Libano, da dove sarebbe possibile raggiungere i mercati occidentali. Tra l’altro, questo corridoio, che spesso viene ideologicamente definito “mezzaluna sciita”, sarebbe teoricamente compatibile con l’ambizioso progetto commerciale della “Via della Seta”, che la Cina sta tentando di promuovere su scala internazionale, per integrare i mercati del macro-continente eurasiatico. Questa analisi, ci permette di leggere l’attivismo iraniano in Siria sotto una nuova ottica strategica, che a ben vedere ha veramente poco di ideologico, e molto di strategico, prospettando importantissimi risultati economici che sembrano conferire un senso razionale all’attivismo iraniano nella regione mediorientale, che molti stolti (o furbi?) addebitano a logiche religiose fanatiche.

Gasdotti Siria Iran Qatar Arabia
( Rotte dei gasdotti concorrenti promossi da Iran e Qatar )

Ad ogni modo, la crisi siriana del 2011 ha rischiato di vanificare i progetti iraniani, costringendo Teheran a correre in soccorso del Presidente Assad, inviando i propri Pasdaran (IRGC) a coordinare le potenti milizie sciite di Hebollah contro le milizie islamiste sunnite, presumibilmente sguinzagliategli contro dalle ricchissime petro-monarchie del Golfo Persico, che in Siria desideravano sabotare il progetto energetico iraniano, promuovendone uno loro.
L’Iran è pertanto intervenuto nella crisi siriana, per garantire la permanenza al potere di un governo amico, guidato da un esponente della minoranza alawita (sciita), la cui caduta avrebbe significato perdere uno dei tasselli fondamentali del predetto “corridoio sciita”. Dunque, le priorità dell’Iran in Siria sono essenzialmente due, la permanenza al potere di un esponente dell’establishment alawita (sciita) come Bashar al-Assad, e l’integrità territoriale siriana, senza di cui non potrebbe esserci alcun corridoio sciita. Per conseguire queste due priorità Teheran non ha esitato a stringere un’alleanza con la Russia, con cui condivide la necessità di conservare Assad alla guida del paese, non in quanto tale, ma in quanto esponente della comunità alawita. Di certo, l’alleanza con la Russia non è delle più comode, poiché i russi non condividono l’ostilità iraniana nei confronti di Israele, con cui intrattiene buoni rapporti, inoltre, la prospettiva di un gasdotto sciita diretto in Europa rischia di ridimensionare la loro posizione dominante all’interno del ricco mercato energetico europeo, anche se forse un compromesso con l’Iran sarebbe relativamente più comodo di uno con le petro-monarchie arabe filo-occidentali, responsabili, tra l’altro, del crollo del prezzo del greggio al di sotto dei 60 dollari al barile, che da qualche anno sta limitando le prospettive economiche sia di Mosca che di Teheran. Sempre attraverso una chiave di lettura energetica, è possibile trovare una ragione alternativa alla questione palestinese che giustifichi il dualismo tra Iran e Israele, due paesi che si contendono l’accesso al mercato energetico europeo. Infatti, il corridoio sciita rischia di ridimensionare le prospettive derivati dall’esportazione delle considerevoli riserve di gas naturale del giacimento Leviathan, che gli israeliani si accingono a sfruttare in cooperazione con Cipro e Grecia, proprio sulla stessa rotta marittima a cui mirano gli iraniani.

Corridoio sciita tra Iran Iraq Siria e Libano
( Corridoio sciita tra Iran, Iraq, Siria e Libano )

Se la permanenza di Assad al potere sembra oramai un obiettivo acquisito, l’obiettivo dell’integrità territoriale siriana sembra in bilico, a causa dell’occupazione americana dei territori est del fiume Eufrate, e dello strategico valico di al-Tanf che collega l’Iraq alla Siria. Gli americani hanno cercato di sigillare i confini siro-iracheni, precludendoli all’Iran, tuttavia, la rapida conquista siriana del valico di Abu Kamal lungo il fiume Eufrate, ha vanificato questo proposito strategico, salvaguardando una delle loro priorità imprescindibili, ovvero una linea di collegamento fisica tra Siria e Iran. Alla luce di ciò, è possibile comprendere come i reiterati raid israeliani non abbiano impensierito più di tanto gli iraniani, che al momento possono dirsi soddisfatti dal loro intervento in Siria, avendo conseguito tutte e due le loro priorità fondamentali. Infatti i raid israeliani, possono rallentare il processo di proiezione iraniana verso il Mediterraneo, ma non possono impedirlo, e verosimilmente, con il trascorrere del tempo, Teheran riuscirà a consolidare la sua influenza nella regione. Infatti, l’altissimo costo a cui gli iraniani hanno dovuto far fronte in Siria costituisce un investimento per il loro futuro, da cui confidano di trarre indiscutibili vantaggi strategici, che molti stolti continueranno a confondere con l’ideologia, cadendo vittima della loro ignoranza, elemento su cui storicamente fanno leva i veri scienziati della politica, e che a Teheran stanno riuscendo a gestire sia sul piano interno, che sul piano esterno, occultando una razionalissima partita politico-economica dietro una irrazionale narrativa religiosa. A questo punto, dato il fallimento dell’insurrezione islamista sunnita tra Siria e Iraq, il successo della strategia iraniana può essere vanificato solo innescando una guerra diretta, a cui, come abbiamo detto, oggi l’Iran non è affatto pronto, e da cui si guarda bene dall’innescare, astenendosi dal reagire alle reiterate provocazioni israeliane, perché gli ayatollah hanno capito che per il momento in Siria vince chi fugge.

LE PRIORITA’ DI ISRAELE

Israele, come è noto, continua ad essere in guerra con la Siria, sebbene il conflitto sia stato congelato da una tregua stipulata all’indomani della guerra del kippur del 1973, e strettamente rispettata da Damasco, nonostante la pluriennale occupazione delle strategiche alture del Golan, sanzionata come illegittima anche dalle Nazioni Unite. Ad ogni modo, Israele ha trovato nella Siria degli Assad un nemico relativamente comodo, soprattutto dopo la fine dell’URSS, da cui Damasco era abituata a ricevere ingenti forniture militari, con cui faticosamente retto il difficile confronto con il ben più moderno esercito israeliano. Tuttavia, almeno fino a prima della crisi del 2011, la Siria, per quanto indebolita, costituiva comunque una minaccia non irrilevante, contando su di un esercito tra i più preparati del Medioriente, che aveva nel suo arsenale chimico un rudimentale, ma efficace, apparato di deterrenza contrapposto all’arsenale nucleare israeliano. La minaccia siriana è stata poi amplificata dal progressivo potenziamento dell’alleanza strategica con l’Iran, che negli anni si è imposto come il principale antagonista di quello che continua a definire tutt’oggi come “entità sionista”. La minaccia iraniana su Israele non è diretta, ma indirettamente proiettata dai loro alleati di Hezbollah, con cui Tel Aviv ha avuto modo di misurarsi in occasione della fallimentare invasione del Libano del 2006.

La crisi siriana del 2011 ha prospettato la fine del governo baathista di Assad, che in sé non costituiva una grave minaccia alla sicurezza di Israele, se non fosse altro che per la sua scomoda alleanza strategica con l’Iran. L’antagonismo tra Israele e Iran ruota sicuramente attorno alla questione palestinese, tuttavia sarebbe riduttivo circoscriverlo a questa annosa controversia regionale, giacché, come abbiamo constatato nell’analisi delle priorità iraniane, quello che viene presentato come “corridoio sciita” verso il Mediterraneo, oltre a configurarsi come una minaccia militare, è anche, o forse sarebbe meglio dire soprattutto, un progetto commerciale finalizzato all’esportazione del gas naturale iraniano in Europa, ambizione condivisa oltre che con le concorrenti petro-monarchie arabe del golfo persico, anche con Israele, che dinnanzi alle sue coste vanta considerevoli giacimenti di gas naturale (Giacimento Leviathan) che conta di collocare all’interno del ricco mercato energetico europeo.
Ad ogni modo, la minaccia militare e la potenziale concorrenza commerciale iraniana, hanno convinto gli israeliani ad interferire in modo relativamente discreto nella crisi siriana, per sabotare il processo di consolidamento dell’influenza iraniana nel paese, obiettivo condiviso con i ribelli islamisti, che non si faranno scrupolo a sostenere, sorvolando sul loro stretto apparentamento ideologico con Hamas. Dunque, il sostegno a potenziali nemici impegnati contro le forze governative fedeli al Presidente Assad, va letto come un rischio giustificato dalla possibilità di conseguire un obiettivo prioritario, come l’eliminazione della scomoda presenza iraniana in Siria, e non come il tentativo di rovesciamento del governo baathsita, che come abbiamo detto, di per se non costituiva più una grave minaccia alla sicurezza di Israele.

Gasdotto Israele Cipro Grecia giacimento gas Leviathan
( Rotta del gasdotto promosso da Israele, Cipro e Grecia )

Il blando e discreto supporto ai ribelli islamisti, è stato compensato esercitando la consueta influenza presso l’establishment statunitense, con cui Tel Aviv è riuscita a convincere Washington ad intervenire per sigillare il confine tra Siria e Iraq, al fine di vanificare il progetto della “Mezzaluna Sciita” perseguito da Teheran che riuscirà comunque a conservare, prendend0 il controllo di Abu Kamal, uno dei tre valichi di frontiera.
L’incapacità americana nel sigillare il confine siro-iracheno, sommato alla permanenza di Assad al potere, ha decretato il fallimento della priorità fondamentale perseguita da Israele nella crisi siriana. Ad ogni modo, da questo fallimento strategico, Israele è riuscito quantomeno a conseguire almeno un vantaggio militare, riuscendo ad ottenere lo smantellamento dell’arsenale chimico siriano, sottraendo a Damasco il suo principale strumento di rappresaglia con cui poter reagire ad un ipotetico attacco nucleare israeliano. Gli israeliani, non riuscendo ad eliminare la presenza iraniana in Siria, hanno perso, ma non sembrano affatto rassegnati a questo stato di cose, perché al contrario di Teheran, oggi godono di una superiorità militare che molti a Tel Aviv vorrebbero sfruttare, innescando un escalation congiunta con gli Stati Uniti con cui ribaltare il risultato favorevole che l’Iran, insieme alla Russia, sta conseguendo in Siria. I reiterati raid aerei, possono dunque essere letti come delle provocazioni, che tuttavia Teheran evita pragmaticamente di raccogliere, perché consapevole di non trovarsi nelle condizioni di poter reggere un confronto militare diretto con Israele, che intende procrastinare in un futuro più comodo.

LE PRIORITA’ DEGLI USA

La crisi siriana del 2011, ha catalizzato fin da subito l’attenzione degli Stati Uniti, prospettandogli la possibilità di privare la Russia del loro ultimo alleato mediorientale. L’ascesa di un governo diverso da quello baathista di Assad avrebbe infatti verosimilmente revocato ai russi la disponibilità della loro base logistica di Tartus, senza di cui la marina russa avrebbe notevoli difficoltà ad operare stabilmente nel Mediterraneo. L’eliminazione dell’influenza russa dalla Siria sembrava un obiettivo agevole da conseguire, all’indomani del rovesciamento del governo libico di Gheddafi, e che, tra l’altro, ben si agganciava alla richiesta israeliana di espulsione della minaccia iraniana dai propri confini. Sulla base di questi presupposti strategici, gli Stati Uniti si sono impegnati nella crisi siriana, sostenendo il discutibile fronte ribelle islamista a trazione qaidista, pur astenendosi dall’intervenire direttamente al loro fianco, ipotesi che li avrebbe inevitabilmente contrapposti ai russi. Il generoso supporto americano, si è articolato indirettamente avvalendosi dei propri alleati regionali, dalla Turchia alla Giordania, coordinati e finanziati dalla regia delle ricche petro-monarchie d’Arabia Saudita e Qatar. Ciononostante, il fronte islamista non è riuscito a prevalere sull’indebolito esercito siriano, rinforzato dalle milizie di Hezbollah guidate dai pasdaran iraniani, e coperti dal relativamente piccolo, ma efficace dispositivo aereo russo. La tenace e imprevista resistenza siriana, ha determinato il tracollo della ribellione islamista, inducendo gli Stati Uniti a sostituire i loro discutibili proxy islamisti con le più “simpatiche” milizie marxiste curde YPG, sostenendole direttamente nella lotta contro le forze dell’Isis, approfittandone per imporre la loro occupazione illegale nei territori ad est del fiume Eufrate, dove la presenza russa era pressoché assente.

( Mappa del confine siro-iracheno conteso tra Iran e USA )

La vittoria sull’URSS al culmine della guerra fredda ha abituato gli Stati Uniti ad agire da unica superpotenza globale, conseguendo qualsiasi cosa decidesse di perseguire, indipendentemente da tutto e da tutti. Tuttavia, oggi gli sviluppi della crisi siriana, dimostrano l’insostenibilità dell’approccio unilaterale di Washington, che per la prima volta dalla fine della guerra fredda si ritrova nelle condizioni di non riuscire ad ottenere gli obiettivi che si era prefissato, ritrovandosi costretta, come qualsiasi altro paese del mondo, a darsi delle priorità.
Si, perché la rimozione della Russia dalla Siria, più che un obiettivo sembrava un desiderio, che potrebbe anche essere materialmente realizzato, ma a rischio di una pericolosissima escalation militare diretta con i russi, che verosimilmente esigerebbe il pagamento di un prezzo talmente alto, che non tutti a Washington sono disposti a pagare. La crisi siriana ha dunque disilluso gli Stati Uniti, sgretolando il mito della loro egemonia globale, costringendoli a revisionare il loro tradizionale approccio unilaterale alle relazioni internazionali. Infatti, una superpotenza avrebbe perseguito i propri propositi senza lasciarsi condizionare delle conseguenze, come dimostrato in altre occasioni, ma oggi, seppur dinnanzi ad una Russia lontana parente dell’Unione Sovietica, Washington tentenna, temendone il confronto, e l’imprevedibile prezzo che potrebbe ritrovarsi a pagare. Il dubbio, di dover pagare per la prima volta le conseguenze delle proprie scelte, sembra segnare il risveglio degli Stati Uniti dal loro “american dream” egemonico, da cui una parte dell’establishment americano non intende affatto risvegliarsi.

Oggi, la politica internazionale americana si configura come un aggregato di ambiziosi desideri e amletici dubbi, privo di priorità fondamentali. Una situazione che obbliga Washington ad agire in un contesto fluido come la crisi siriana, che li costringe a ricercare le priorità che le mancano tra quelle dei propri alleati più convincenti, come Israele. E’ così che il paese “leader del mondo libero” si è ritrovato nel desertico est della Siria a combattere a fianco di milizie comuniste curde, di cui teoricamente dovrebbe essere antitesi, per difendere la priorità strategica di un paese terzo come Israele, ovvero, l’eliminazione della presenza iraniana dalla Siria, priorità ben più realistica del loro insostenibile desiderio di egemonia sulla Russia, che nel 2011, ha ispirato il loro coinvolgimento nella crisi siriana. Ad ogni modo, nonostante l’inedita partnership con le milizie ribelli islamiste di al-Tanf e quelle comuniste del Rojava, gli Stati Uniti non sono comunque riusciti a sigillare i confini siro-iracheni, fallendo l’obiettivo di occupare il valico di Abu Kamal prima della coalizione siro-iraniana, con cui l’Iran è riuscito a conservare quel collegamento fisico con la Siria tanto temuto dagli israeliani. La conquista siro-iraniana del valico di Abu Kamal, ha vanificato la priorità strategica di Israele, che nel frattempo è stata adottata in corsa anche dagli Stati Uniti, sancendo di conseguenza anche la loro sconfitta. Una sconfitta che compromette le velleità da superpotenza degli Stati Uniti, e le cui responsabilità vanno ricondotte all’establishment di Washington, illusosi di poter riuscire a dominare le relazioni internazionali basandosi essenzialmente sui propri desideri egemonici, escludendo di darsi delle priorità strategiche realistiche, forse perché convinti di poter controllare tutti gli eventi e le variabili prodotte dal mondo multilaterale contemporaneo, da cui, normalmente, gli attori internazionali più pragmatici si tutelano, dandosi per l’appunto delle priorità, con cui tracciare “linee rosse“, che a differenza di quelle tracciate da Washington, risultano effettivamente indelebili. Come se quanto detto non bastasse, al fallimento della strategia contenitiva dell’Iran, va aggiunto il serio rischio che la militarizzazione delle milizie marxiste curde YPG sodali del PKK, induca la Turchia a defezionare dalla NATO, cambiando fronte a favore di Mosca, ipotesi che se concretizzata basterebbe a definire l’intervento USA in Siria come una vera e propria catastrofe strategica.

LE PRIORITA’ DELLA TURCHIA

Prima della crisi siriana i rapporti siro-turchi vivevano una stagione di fiducia reciproca, dopo anni di tensioni legate al supporto che l’ex-presidente Hafiz al-Assad aveva a lungo fornito ai curdi del PKK, particolarmente attivi nel nord della Siria, da dove erano soliti predisporre sortite contro obiettivi turchi. La crisi siriana ha permesso alle ambizioni neo-ottomane di Erdogan di concretizzarsi, estendendo l’influenza turca all’interno del nord della Siria, sostenendo la ribellione islamista e trafficando petrolio dalle zone occupate dall’ISIS. Dunque, così come la Siria supportò i curdi del PKK, i turchi iniziarono a sostenere il fronte ribelle, aggregando gli ufficiali traditori siriani sotto l’insegna dell’Esercito Libero Siriano (FSA), milizia che al netto del nome, non riuscirà ad imporre la sua leadership moderata, finendo per essere fagocitata dalla ben più organizzata coalizione islamista egemonizzata dal fronte al-Nusra, la succursale locale di al-Qaida. Il supporto turco al fronte islamista siriano, verrà assecondato dai suoi alleati NATO nel nord-ovest siriano, ma osteggiato nel quadrante nord-orientale, dove invece le milizie islamiste bersagliavano la minoranza curda locale.

Ad ogni modo, l’approccio turco, seppur criticabile, non destava particolari preoccupazioni in occidente, giacché la posizione turca era fortemente ostile all’iniziativa russa a sostegno dell’esercito siriano, tanto da giungere all’abbattimento di un caccia-bombardiere russo SU-24. Tuttavia, questo approccio muterà repentinamente nel 2016, dopo il fallimentare golpe ai danni di Erdogan, evento che indurrà il presidente turco a riconsiderare le proprie priorità, rivalutando alleati e nemici. Erdogan ha infatti individuato le responsabilità del tentato golpe ad ambienti contigui all’occidente, da cui ha iniziato ad allontanarsi, avvicinandosi alla Russia di Putin, che per quanto costituisse un avversario in Siria, non costituiva di certo una minaccia alla sua permanenza al potere. Gli sviluppi di questi eventi, mutano l’approccio turco alla crisi siriana, inducendo Erdogan a razionalizzare le proprie priorità in conseguenza dell’evoluzione dello scenario, in cui, nel frattempo, lo sfaldamento del fronte islamista ha favorito l’ascesa dei curdi spalleggiati dagli USA, trasformando quella che sembrava una campagna di conquista in una potenziale minaccia all’integrità nazionale, suggerita dalla contiguità delle milizie curde YPG ai secessionisti marxisti del PKK. Nello specifico, il crescente supporto americano ai curdi siriani, sommato a quello storicamente garantito ai curdi iracheni, ha allarmato oltremodo i turchi, che da assedianti nel medio-lungo periodo rischiano di ritrovarsi assediati da un fronte curdo pronto ad articolarsi lungo i confini sud-orientali. Infatti, Erdogan teme che nel medio lungo periodo il rafforzamento dei curdi in Siria e Iraq possa galvanizzare anche le ambizioni secessioniste anche all’interno della penisola anatolica, ponendo le condizioni ideali per quell’insurrezione curda a cui il PKK ambisce da anni, e che oggi sembra trovare il tacito consenso degli alleati occidentali di Ankara, che, finita la guerra fredda non si precludono alleanze con i vecchi nemici comunisti di ieri.

Presenza curda ai confini turchi
( Presenza curda ai confini turchi )

Il coinvolgimento turco nella crisi siriana non aveva una vera e propria priorità, ma perseguiva piuttosto l’opportunità di ripristinare l’antica influenza ottomana in Medioriente, rimodulandola sullo stesso frame islamista dei ribelli siriani. Ad ogni modo, l’intervento russo ha trasformato quella che sembrava una comoda opportunità in una minaccia, che ha imposto ad Ankara una priorità marginalizzata alla vigilia della crisi, ovvero il contenimento curdo. Oggi, Erdogan si ritrova a gestire condizioni impreviste, che rischiano di trasformare la Turchia in una nuova Siria. Infatti, la militarizzazione dei curdi in Iraq e Siria, favorita dagli americani avanza la non remota possibilità che una crisi nel sud-est anatolico inneschi un pericoloso processo di secessione, patrocinato sommessamente proprio dai propri alleati NATO, a cui difficilmente saprebbe reagire. Erdogan, nel medio-lungo periodo, rischia di ritrovarsi in una condizione ben peggiore di quella di Assad in Siria, poiché a differenza del presidente siriano, in caso di crisi non potrà contare sui propri alleati, che, tra l’altro, hanno dimostrato la loro inaffidabilità nel corso del fallito golpe del 2016. La priorità di Erdogan è dunque divenuta la ricerca di nuovi possibili alleati, con cui difendersi dai vecchi, ecco perché, suo malgrado, sta potenziando le relazioni bilaterali con la Russia e l’Iran, paesi con cui sta negoziando la risoluzione politica della crisi siriana che ha contribuito ad alimentare fino a qualche anno fa. Oggi, la priorità per Erdogan è la conservazione dell’integrità territoriale turca, e per ottenerla, presto potrebbe prendere decisioni drastiche, che vanno dalla chiusura della base USA di Incirlik, all’uscita dalla NATO, a meno che gli Stati Uniti non decidano di disarmare i curdi, lasciandoli in balia dell’esercito siriano, ipotesi remota, che avvalora la tesi di uno sganciamento turco dall’alleanza atlantica, che nel medio-lungo periodo sembra avere in programma uno “scenario balcanico” per la Turchia, simile a quello già impostato in Iraq e in Siria.