CONOSCIAMO I CURDI DI TURCHIA
I CURDI DI TURCHIA
Dopo aver approfondito la realtà di paesi al centro dell’attenzione internazionale come la Siria, la Corea e lo Yemen, adesso proviamo a conoscere una realtà non statale come quella curda, dedicandoli alcuni nuovi articoli della serie “Conosciamo…”, dove analizzeremo le comunità curde presenti all’interno del Medioriente, dove coesistono all’interno di realtà nazionali non sempre condivise.
All’indomani del crollo dell’Impero Ottomano, la vasta comunità curda presente in Medioriente si ritrovò redistribuita all’interno di 4 nuovi stati, parliamo innanzitutto della Turchia (50%), ma anche dell’Iran (25%), dell’Iraq (20%) e della Siria (4%), dove questa comunità etnica continua a vivere fino ad oggi, facendo fronte a ricorrenti problemi di coesistenza culturale e politica. Malgrado l’appartenenza ad unico ceppo etnico, i popoli curdi non possiedono una vera e propria lingua curda, ma fanno riferimento a dei dialetti locali più o meno simili, diffusi tra le miriadi di comunità distribuite all’interno del quadrante geografico mediorientale, dove oggi vivono circa 30 milioni di curdi, cifra globale certamente consistente, ma che li rende comunque una minoranza, pur se agganciata in larga parte alla tradizione religiosa islamica. Nello specifico, come già detto, la gran parte della popolazione è distribuita prevalentemente in Turchia, dove risiede la più vasta comunità curda, il resto è distribuito più o meno equamente tra Iran e Iraq, con una piccola minoranza residente nel nord della Siria, nella regione del Rojava. Ad ogni modo, nel tempo la comunità curda ha alimentato anche i flussi migratori verso l’occidente, soprattutto verso i paesi europei, dove oggi risiedono più di un milione di curdi, residenti prevalentemente in Germania. Detto questo, in questo primo articolo dedicato alla conoscenza della realtà curda, approfondiremo lo sviluppo storico-politico dei curdi di Turchia, che poi costituiscono la più grande comunità curda mediorientale.
LE PRIME INSURREZIONI CURDE
Il popolo curdo ha vissuto per secoli sotto dominio straniero, tuttavia, l’identità curda comincerà ad imporsi sul piano politico solo sul finire del XIX secolo, quando lo Sceicco Ubeydullah approfittò dell’instabilità derivante dalla guerra russo-turca del 1877 per guidare una rivolta finalizzata al raggiungimento dell’indipendenza di uno stato curdo, libero dai condizionamenti ottomani e persiani, le due principali potenze regionali dell’epoca, che comunque riuscirono a disinnescare il primo tentativo di irredentismo curdo nel giro di qualche mese. Successivamente al fallimento della prima insurrezione curda, i leader tribali curdi vennero progressivamente cooptati dalle autorità imperiali ottomane, nonostante il corso riformista avviato dal sultanato di Istanbul irritasse non poco l’establishment curdo, fortemente agganciato alla tradizione islamica, e decisamente refrattario alle logiche secolari che cominciavano a prendere piede in Turchia alla vigilia del processo delle “riforme Tanzimat”. Ritrosie che si sommavano alla tradizionale ostilità curda all’approccio centralistico, esasperato dai nazionalisti turchi nei primi anni del 1900, quando i già ridotti margini di autogoverno concessi alle realtà periferiche dell’Impero Ottomano si ridussero ulteriormente. Ad inizio novecento, il crescente nazionalismo turco comincerà ad ispirare le prime campagne di pulizia etnica, finalizzate a disarticolare la non indifferente presenza curda all’interno dell’Impero Ottomano, dove si temeva seriamente la possibilità di un’alleanza tra loro e i russi, proprio alla vigilia della prima guerra mondiale.
LA DELUSIONE POST-OTTOMANA
Con la fine della “Grande Guerra” e la consequenziale dissoluzione dell’Impero Ottomano, i curdi sembrarono prossimi all’indipendenza, trovando il favore di paesi come Francia e Regno Unito, che presero in considerazione la prospettiva di uno stato curdo a margine della Conferenza di pace di Parigi, dove le delegazioni diplomatiche anglo-francesi tentarono di armonizzare i confini del Kurdistan con quelli del nascente stato armeno, nodo politico da cui derivarono accesissime dispute politiche relative alla sovranità dei territori dell’est anatolico, contesi da questi due popoli. L’esasperato dualismo tra curdi ed armeni, verrà sfruttato dalle autorità turche, che ne approfitteranno per cooptare i curdi, facendo leva sulla loro comune appartenenza islamica, contrapponendola strumentalmente alla confessione cristiana armena, divenuta vittima di una feroce persecuzione culminata in un vero e proprio genocidio. Nello specifico, i curdi collaboreranno con i turchi nella persecuzione degli armeni credendo alle prospettive di decentralizzazione che il governo dei “giovani turchi” avevano avanzato, lasciando intendere la concessione di una qualche forma di autonomia amministrativa curda, che tuttavia verrà disattesa, dopo l’annichilimento armeno, da una nuova massiccia campagna di pulizia etnica promossa dai nazionalisti turchi guidati da Mustafa Kemal “Ataturk”, proprio al fine di disarticolare la scomoda presenza demografica curda all’interno della penisola anatolica.
Sul finire della prima guerra mondiale, i curdi approfittarono della simpatia britannica alla loro causa, ottenendo una debole forma di riconoscimento all’interno del trattato di pace firmato a Sevres, che per quanto vago e lacunoso, sembrava prospettare comunque l’istituzione di uno stato curdo, seppur circoscritto ai soli territori turchi, lasciando tuttavia aperta la possibilità di concordare successivamente l’integrazione delle comunità curde riconducibili alle sfere di influenza delle potenze vincitrici della grande guerra, tra cui spiccava la Francia, che si assicurò il controllo della Siria e del nord Iraq, dove viveva proprio una cospicua comunità curda. Nell’immediato primo dopoguerra, il Regno Unito inizierà a supportare la causa nazionalista curda, favorendo l’istituzione della “Società per la Crescita del Kurdistan”, un’organizzazione finalizzata alla promozione dell’identità socio-politica del popolo curdo. Sotto l’impulso della Società per la Crescita del Kurdistan, i curdi della tribù Kocgiri prenderanno l’iniziativa guidando una ribellione contro i nazionalisti turchi, sfruttando le favorevoli premesse diplomatiche derivanti dal Trattato di Sevres. Ad ogni modo, nonostante l’entusiasmo curdo, la rivolta dei Kocgiri venne disarticolata rapidamente nel giro di pochi mesi dai nazionalisti turchi guidati dall’efferato generale Nureddin Pasha, la cui brutale condotta venne censurata persino dall’establishment nazionalista turco, che arriverà a chiederne il processo, sventato solo dall’intervento di Mustafa Kemal “Ataturk”.

Gli eccezionali successi militari conseguiti dai nazionalisti turchi, agevolati dal marginale supporto che i britannici garantirono ai curdi, vanificarono inesorabilmente tutte le premesse geopolitiche avanzate dalle potenze occidentali a Sevres. Il fallimento curdo, fu anche dovuto alla mancanza di coordinamento tra le varie realtà tribali curde, alcune delle quali preferirono addirittura schierarsi a favore dei nazionalisti di Ataturk, che nel 1923, immediatamente dopo aver istituito la Repubblica Turca, riuscirà a costringere le potenze europee a rettificare il trattato di Sevres, stipulando un nuovo trattato di pace a Losanna, che sostanzialmente definiva i confini dell’odierna Turchia, decretando la fine dell’Impero Ottomano e la nascita di nuovi stati come la Siria e l’Iraq, affidati rispettivamente alla supervisione di Francia e Regno Unito. Soluzione questa, che pose fine a qualsiasi prospettiva indipendentista curda all’interno dei territori post-ottomani, lasciando la vasta comunità curda divisa all’interno di 4 paesi diversi, di cui la metà riconducibile alla nascente Repubblica Turca, la cui connotazione nazionalista cominciò ad alienarsi il favore di molti ufficiali curdi precedentemente contigui alla filosofia dei Giovani Turchi, come nel caso del generale Ihsan Nuri.
LA REPUBBLICA DI ARARAT E L’INSURREZIONE DI DERSIM
Nel 1925, due anni dopo il Trattato di Losanna, l’attivismo curdo tornerà alla ribalta, coagulandosi sotto la guida di Sheikh Said, un leader islamista curdo particolarmente ostile ai nazionalisti turchi, che perorava la restaurazione del califfato islamico. Tuttavia, anche la rivolta di Sheikh Said, per quanto più sostanziosa della precedente rivolta dei Kocgiri, non riuscirà a prevalere contro il meglio armato esercito turco, che dopo aver disarmato i rivoltosi, giustiziando lo sceicco Said, costringerà i reduci a rifugiarsi nel nord della Siria, dove riceveranno la cittadinanza dalle locali autorità coloniali francesi. Nel 1927, i curdi della Turchia torneranno a forzare la mano proclamando l’indipendenza della Repubblica di Ararat, un progetto irredentista promosso dal Partito Nazionalista curdo Xoybun guidato dall’influente generale Ihsan Nuri, che agirà per la prima volta sotto il vessillo tricolore curdo, tuttavia, anche quest’ennesima iniziativa verrà disinnescata prontamente dall’esercito turco, favorito ancora una volta dalla superiorità dei propri mezzi, oltre che dal blando sostegno che i britannici garantirono ancora una volta alla causa curda, sostegno decisamente più politico che militare. Ad ogni modo, il fallimento della Repubblica di Ararat costringerà Ihsan Nuri a rifugiarsi in Persia, dove concluderà la propria esperienza politica.
Detto questo, va considerato che fino al crollo dell’Impero Ottomano non si era imposta seriamente una vera e propria questione curda, che ad onor del vero verrà alimentata per motivi strategici sia dagli europei che dai sovietici, per utilizzare l’indipendentismo curdo come strumento geopolitico con cui incrementare la propria influenza strategica nella regione mediorientale post-ottomana. Non a caso, mentre gli europei coltivavano i propri rapporti con le realtà curde mediorientali, i sovietici non esitavano a fare lo stesso sia in Medioriente, ma soprattutto in Persia, dove favorirono alcune altrettanto fallimentari insurrezioni irredentiste, di cui parleremo in un prossimo articolo sui curdi dell’Iran. Nel 1937, il processo di “turchizzazione” delle regioni curde innescò una serie di proteste, seguite da alcuni attentati culminati con una rivolta curda nella regione di Dersim, sotto la guida del leader curdo locale Sayd Riza. La rivolta di Dersim si prolungò per circa un anno, concludendosi con la brutale sconfitta dei ribelli curdi, la cui portata numerica ha indotto alcuni storici a considerare l’intervento militare turco alla stregua di un genocidio su piccola scala. Ad ogni modo, successivamente alla rivolta, i turchi riusciranno a stabilizzare la situazione nella regione di Dersim, dove comunque l’astio nei confronti dei turchi continuò ad essere alimentato dai curdi locali, ispirando la costituzione di formazioni marxiste come il movimento maoista turco, che si distinguerà per le sue iniziative negli anni 70.
LA SVOLTA MARXISTA DELLA CAUSA CURDA
Negli anni 70, dopo anni di relativa quiete, le ambizioni curde troveranno nuovo slancio politico, ripudiando le vecchie simpatie islamiste, particolarmente forti nelle regioni rurali più profonde della penisola anatolica, assumendo un’inedita connotazione marxista, promossa da alcuni studenti di sinistra organizzati sotto la sigla del Dev-Genc, un’organizzazione marxista fondata solo qualche anno prima, attiva nelle aree urbane centrali del paese, e messa al bando dal governo turco a causa del loro integralismo socialista. I comunisti del Dev-Genc, tra l’altro, si distinsero per il loro approccio ostile agli Stati Uniti, contestando l’adesione della Turchia alla NATO e la contiguità alle logiche capitaliste che prendevano progressivamente piede all’interno del paese, dove intanto si rapportavano in maniera antagonista contro le formazioni di destra, osteggiando in non pochi casi anche i movimenti di estrazione social-democratica.
Ben presto, l’attivismo del Dev-Genc catalizzò le attenzioni dell’intelligence turca, costringendo l’organizzazione a spostarsi dalla capitale Ankara verso l’entroterra orientale della penisola anatolica, dove riusciranno a soppiantare progressivamente l’indole conservatrice islamica e le logiche tribali prevalenti all’interno della comunità curda, traghettandola progressivamente nella loro prospettiva ideologica, avvalendosi della carismatica leadership di Abdullah Ocalan, attorno a cui si strutturò il primo nucleo del “Partito dei Lavoratori del Kurdistan” (PKK), un’organizzazione politica che in origine perseguiva l’istituzione di un regime comunista in Turchia, e non la rivoluzione secessionista curda che verrà impostata successivamente.
Una volta lasciata Ankara per le regioni rurali dell’Anatolia orientale, il PKK riuscirà a conquistarsi il sostegno della vasta comunità curda locale, coinvolgendo molti giovani curdi nell’organizzazione di numerosissimi di attentati contro obiettivi e personalità non conformi alla loro ideologia marxista, al punto da essere designata dal governo turco come un’organizzazione terroristica. Nel 1979, l’escalation terroristica del PKK suscitò la dura reazione turca, che costringerà Ocalan a fuggire dalla Turchia, trovando rifugio in Libano, dove stringerà ottimi rapporti con i movimenti della resistenza palestinese come al-Fatah, godendo anche della copertura della Siria di Hafiz al-Assad e del supporto del KGB sovietico.

LA SFIDA DEL PKK DI OCALAN
Durante l’esilio libanese di Ocalan, il PKK avrà modo di addestrare le proprie milizie paramilitari, dirottandole successivamente in Turchia, dove predisporranno numerose azioni di guerriglia contro l’esercito turco, da cui spesso si disimpegnavano rifugiandosi periodicamente all’interno dei campi base tollerati dall’Iran a ridosso dei propri confini, soprattutto nel periodo della guerra con l’Iraq, quando il PKK iniziò ad operare anche all’interno della regione del Kurdistan iracheno, godendo della copertura del Partito Democratico del Kurdistan (PDK) di Barzani, nonostante questi nutrisse scarsa fiducia nei confronti dei comunisti di Ocalan.
Negli anni 80, la crescente organizzazione militare del PKK cominciò a costituire una seria minaccia per la stabilità interna della Turchia, che non riusciva a contrastare efficacemente la guerriglia marxista, supportata dalla complicità siriana e iraniana, oltre che dai curdi iracheni, nonostante i reiterati tentativi di Saddam Hussein di disarticolare il potenziale curdo nel nord del paese, dove tollerava le frequenti incursioni militari turche contro le milizie del PKK attive lungo il confine turco-iracheno. Ad ogni modo, malgrado l’impegno turco, il PKK riuscì a consolidare il proprio potenziale politico e militare finanziandosi gestendo il flusso del traffico di stupefacenti provenienti dall’Asia tramite l’Iran, attirando l’attenzione dell’Interpol, mentre intanto l’escalation terroristica cominciava a mietere vittime anche in Europa e in Africa, dove l’organizzazione di Ocalan verrà definitivamente classificata come organizzazione terroristica.
All’inizio degli anni 90, il PKK comincerà a ridefinire le proprie strategie, normalizzando le proprie relazioni politiche con i partiti di sinistra turchi, concludendo l’epoca delle persecuzioni degli avversari presenti all’interno dell’orbita socialista turca.
In occasione della prima guerra del golfo, il PKK approfitterà dell’indebolimento del governo di Baghdad per incrementare la propria presenza nella regione del Kurdistan iracheno, dove intanto i curdi locali avevano strutturato una propria realtà politica autonoma, patrocinata degli Stati Uniti, che non si curarono minimamente delle rimostranze turche. Infatti, malgrado l’operazione americana contro l’Iraq si limitasse a cacciare gli iracheni dal Kuwait, la “no fly zone” che gli americani imporranno all’aviazione irachena nei mesi a seguire, agevolerà considerevolmente le manovre delle milizie peshmerga curde e dei loro alleati del PKK, che tra l’altro, continuavano a godere della copertura dell’Iran lungo i confini.

L’INFLUENZA DEL PKK IN IRAQ E SIRIA
Sempre nei primi anni 90, il dualismo tra le due principali fazioni curde irachene, sembrò prospettare il rafforzamento del PKK strategicamente allineato sulle posizioni ideologiche dell’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK) di Jalal Talabani, che sosterrà nel corso della guerra civile curda combattuta contro il PDK di Barzani, strategicamente allineato con la Turchia, con cui trafficava petrolio da anni. Nel 1997, la Turchia dopo aver reiteratamente diffidato il PUK dal continuare a cooperare con il PKK, deciderà di organizzare un’operazione militare nel nord dell’Iraq finalizzata a ripulire il confine dalla presenza dei terroristi marxisti, avvalendosi anche del determinante supporto del PDK, che al termine delle operazioni riuscì a convincere il PUK a siglare una tregua, mentre intanto l’organizzazione di Ocalan si avvaleva del supporto siriano per incrementare la propria presenza nella regione arabofona turca di Hatay, che prima dell’annessione di Ankara nel 1938, era integrata alla Siria, sotto la denominazione di Alessandretta.
Nel 1993, la Turchia cercherà di ottenere dalla Siria la fine del sostegno al PKK, riuscendo a convincere l’intelligence di Damasco a condividere regolarmente informazioni inerenti l’organizzazione di Ocalan, tuttavia, l’allora Presidente Hafiz al-Assad subordinò qualsiasi impegno nel contrasto ai curdi alla controversa questione sullo status di Alessandretta (Hatay) e soprattutto quella inerente lo sfruttamento intensivo delle risorse idriche del fiume Eufrate da parte dei turchi. Le ritrosie turche a cedere alle condizioni siriane indussero i siriani a continuare a supportare tacitamente il PKK sperando di destabilizzare la regione di Hatay, abitata prevalentemente da arabi di estrazione alawita, la stessa confessione a cui apparteneva il leader baathista di Damasco.
LA GEOPOLITICA CONDANNA IL PKK DI OCALAN
L’approccio siriano e la solidarietà iraniana intimorirono i turchi, che nel 1996 si cautelarono siglando un’alleanza strategica con Israele, preparandosi ad una possibile escalation militare con la vicina Siria, che venne comunque sventata da un provvidenziale accordo raggiunto con il governo baathista di Damasco, che come quello turco, riteneva inutile una guerra. Sicché, nel 1999, in conseguenza dell’accordo turco-siriano, il leader del PKK Ocalan fu costretto a lasciare rapidamente la Siria per trasferirsi in Grecia, da dove provò a trasferirsi in Russia, dove tuttavia non gli verrà concesso lo status di rifugiato politico, costringendolo a riparare repentinamente in Italia, avvalendosi del supporto dei comunisti italiani. Lo sbarco di Ocalan in Italia metterà in crisi il governo guidato da Massimo D’Alema, messo sotto pressione dall’indirizzo umanitario prevalente all’interno della sinistra italiana, mentre intanto il governo turco esigeva l’estradizione del leader di un organizzazione terroristica, responsabile di una sempre più cruenta escalation terroristica. Lo stallo diplomatico verrà interrotto quando il governo italiano concorderà il trasferimento di Ocalan in Grecia, da dove il governo di Atene tenterà di farlo esfiltrare in Kenya, dove tuttavia, alla fine verrà catturato dai servizi segreti turchi, in partnership con la CIA.

Successivamente all’arresto, Ocalan verrà condannato all’ergastolo, da dove inviterà la sua organizzazione a recedere dalla lotta armata, ordinando una tregua propedeutica all’avvio di un serio processo di pace con il governo turco. Il leader del PKK esorterà a più riprese i vertici dell’organizzazione a ricollocarsi politicamente, polarizzandosi su posizioni social-democratiche prossime al libertarismo, armonizzandole con i vecchi propositi rivoluzionari comunisti, divenuti sempre più anacronistici dopo la dissoluzione dell’URSS. Ad ogni modo, la cattura di Ocalan limitò fortemente il potenziale della sua organizzazione, favorendo la campagna internazionale con cui nel 2001 il governo turco riuscì a convincere USA e Unione Europea a classificare il PKK curdo come un’organizzazione terroristica, riuscendo a convincere persino l’Iran a prenderne le distanze, cosa che invece non riuscirà del tutto con paesi come la Russia, la Cina e l’Egitto, che invece eviteranno di chiudere definitivamente i rapporti con il movimento curdo. La classificazione del PKK come organizzazione terroristica, convinse l’organizzazione curda, nel frattempo passata sotto il comando di Murat Karayilan, a tentare inutilmente di eludere le restrizioni internazionali cambiando denominazione. Nel 2004, la mancata riconciliazione, indurrà l’establishment del PKK a recedere dalla tregua, riavviando le operazioni terroristiche contro obiettivi turchi, nonostante l’opposizione della fazione vicina al fratello di Ocalan, che alla fine prenderà le distanze dall’organizzazione, abbandonando la lotta armata in favore della lotta politica istituzionalizzata, costituendo il Partito Democratico Popolare. Tuttavia, questa svolta politica scatenerà una feroce rappresaglia dissuasiva del PKK, parallela alla nuova escalation terroristica in corso contro gli obiettivi turchi.
L’ISTITUZIONALIZZAZIONE DELLA CAUSA CURDA
Sarà proprio l’estremismo paramilitare a convincere alcuni importanti esponenti del PKK a prendere le distanze dall’organizzazione, promuovendo una formula esclusivamente politica che nel 1994 porterà alla fondazione del Partito della Democrazia Popolare (HADEP), cercando di incanalare la lotta avviata da Ocalan su di un piano istituzionale. Tuttavia, la contiguità ambientale con il PKK susciterà l’interesse delle autorità turche, esponendo il suo establishment ad uno stretto regime di controllo da parte dell’intelligence, che porterà a non sporadici arresti di personalità accusate di essere emanazione politica dell’organizzazione terroristica marxista. Nel 1997, l’HADEP mutò denominazione, diventando il Partito Popolare Democratico (DEHAP), tuttavia, nel 2002, malgrado l’impegno profuso, la nuova formazione nazionalista curda non riuscirà ad entrare in parlamento, a causa di una soglia di sbarramento del 10%. L’anno successivo, il DEHAP verrà bandito dalla Corte Costituzionale turca, che ne contesterà l’effettiva contiguità con il PKK. Nel 2005, i nazionalisti curdi del disciolto DEHEP si riorganizzeranno costituendo il Partito della Società Democratica (DTP), formazione che continuerà a solidarizzare con il PKK, perorando la liberazione di Ocalan, posizioni che indurranno la Corte Costituzionale a mettere nuovamente al bando il nuovo partito curdo, accusandolo di minacciare l’integrità del paese.
Tre anni più tardi, i curdi torneranno a riorganizzarsi fondando il Partito per la Pace e la Democrazia (BDP), partito che pur confermando l’estrazione comunista, comincerà ad assumere i tratti marcatamente liberali della sinistra occidentale, sempre più lontana dal mondo delle masse lavoratrici, e sempre più contigua agli interessi delle minoranze. Nel 2011, il BDP promuoverà una coalizione delle formazioni politiche della sinistra turca finalizzata al superamento della soglia di sbarramento del 10%, agglomerato politico da cui deriva l’odierno Partito Democratico Popolare (HDP), una formazione che ha come obiettivo il superamento del dualismo tra turchi e curdi. Ad ogni modo, al netto della connotazione ideologica, l’HDP continuerà ad essere contiguo al PKK, dominando le realtà anatoliche sudorientali dove storicamente opera l’organizzazione curda, e dove la nuova formazione filo-curda tutt’oggi raccoglie la gran parte dei suoi consensi elettorali, senza contare la militanza di alcuni familiari di Ocalan tra le fila del partito. Tra l’altro, nelle regioni sudorientali della Turchia si sono registrati numerosi episodi di intimidazione e violenza perpetrati dal PKK contro la popolazione locale che si rifiutava di supportare proprio l’HDP durante le tornate elettorali, eventi che hanno contribuito a corroborare le accuse di contiguità con l’organizzazione terroristica marxista mosse dalle autorità turche.
IL PROCESSO NEGOZIALE E LA CRISI SIRIANA
Solo nel 2012, il governo turco guidato da Erdogan tenterà di avviare un processo negoziale con il PKK, convincendo Ocalan ad aprire ad una risoluzione politica della controversia tra il movimento curdo e la Turchia. Ocalan accoglierà l’apertura turca inoltrando una lettera in cui avanzava la possibilità di rinunciare alla lotta armata, prospettando la fine delle operazioni del PKK al di fuori dei “territori curdi”, annunciando il ritiro dei miliziani dai “territori turchi”. L’approccio conciliante del leader curdo verrà accolto con favore da Erdogan, che risponderà promuovendo l’istituzione di una apposita commissione finalizzata alla discussione delle premesse di un accordo di pace con il PKK, riscontrando tuttavia lo scarso entusiasmo dei partiti di opposizione turchi, critici verso i criteri politici predisposti dal governo nella composizione della commissione di riconciliazione. I timidi progressi del processo negoziale verranno vanificati dall’avvento della crisi siriana, quando i turchi ignoreranno le richieste di soccorso provenienti dalle comunità curde siriane assediate dall’ISIS, impedendo ai militanti del PKK di varcare il confine per dar loro manforte. La crisi dei curdi in Siria, e l’inerzia turca nel contrastare i terroristi dell’Isis, comprometterà i negoziati di pace, inducendo il PKK a riprendere la lotta armata, denunciando la complicità del governo turco nei confronti delle iniziative dei terroristi islamisti contro i curdi siriani.
Nel 2014, la prepotente avanzata dei terroristi dell’ISIS, convincerà i terroristi marxisti del PKK ad intervenire nel nord della Siria a sostegno delle comunità curde assediate dalle milizie islamiste, trovando l’anomalo sostegno degli Stati Uniti, che non esiteranno a contrastare i terroristi jihadisti supportando milizie marxiste compromesse con un’altra organizzazione terroristica, peraltro combattuta da un paese alleato come la Turchia che, come tutti i paesi NATO, classifica il PKK come un’organizzazione terroristica, per giunta di estrazione comunista, ideologia che l’alleanza atlantica ha paradossalmente combattuto per decenni, probabilmente più in funzione anti-russa che anti-sovietica. Ad ogni modo, il mancato soccorso turco ai curdi siriani assediati a Kobane, interromperà la collaborazione e i negoziati tra il governo di Ankara ed il PKK, innescando la ripresa delle attività terroristiche dell’organizzazione marxista in Turchia, dove lanceranno un “Movimento Rivoluzionario Unito dei Popoli” con cui coordinare la “lotta antifascista” contro il governo turco presieduto da Erdogan.
Queste dinamiche geopolitiche hanno influito sull’HDP, ridimensionando il potenziale politico del partito guidato da Selahattin Demirtas, che alle elezioni del 2015 passerà dal 13% al 2.3% nel giro di qualche mese, faticando a superare la soglia del 10% per l’accesso al parlamento turco. Il leader del HDP Demirtas, accusato di sostenere i terroristi del PKK, subito dopo la tornata elettorale subirà un fallito attentato, che comunque non gli impedirà di candidarsi alle elezioni presidenziali del 2018, presentando un programma sostenuto da una coalizione di partiti nazionalisti curdi, comunisti e liberal-socialisti, che prevedeva l’emendamento della costituzione turca, il potenziamento dei diritti umani, la costruzione di un sistema politico alternativo al capitalismo e il rilancio del processo di adesione all’Unione Europea, nonostante questa rappresentasse la quinta essenza del capitalismo. Ad ogni modo, alle elezioni presidenziali, Demirtas raccoglierà l’8% dei consensi, piazzandosi 3° dietro il candidato dei popolari repubblicani Ince (30%) e al vittorioso Presidente Erdogan, premiato con il 52% dei consensi, con un affluenza dell’86%.

CONCLUSIONI
Le ambizioni indipendentiste curde si sono imposte sulla scena internazionale solo conseguentemente allo sfaldamento dell’Impero Ottomano, tuttavia, prima di questo evento la comunità curda si era distinta politicamente, mantenendo un approccio conservatore contiguo alla tradizione islamica e fortemente ostile al processo di riforma Tanzimat, anche se in realtà il vero movente va identificato nell’insofferenza al centralismo turco. L’agognata autonomia verrà perseguita per anni, tentando di conquistarla supportando perfino l’esercito turco nel corso del genocidio armeno. Dinnanzi alla deriva nazionalista turca, i curdi cambieranno registro provando ad internazionalizzare la loro causa indipendentista ricercando il favore delle principali potenze occidentali, che tuttavia faticheranno a tradurre il loro supporto politico in supporto militare, finendo con l’illudere in più occasioni la comunità curda, lasciandola in balia delle ricorrenti rappresaglie turche. Successivamente al Trattato di Losanna, i curdi rinunciarono, loro malgrado, alla prospettiva di un Kurdistan indipendente, causa che riprenderà progressivamente vigore solo nel secondo dopoguerra, su impulso del movimento socialista internazionale, da cui deriverà quel background politico-culturale impostato dal PKK, un’organizzazione capace di affrancare le comunità rurali curde dalla loro dimensione tradizionalista contigua all’islam, dirottandola su di un processo di modernizzazione laico, per certi versi simile a quello avviato dagli odiati nazionalisti turchi di Mustafa Kemal.
Pertanto, l’adesione ai principi marxisti va sostanzialmente letto come un diversivo politico strumentale, giacché il progresso che si ricercava non era affatto ostacolato dalla laicissima Repubblica Turca di Ataturk. Verosimilmente, i curdi individuarono nel comunismo quell’elemento utile all’internazionalizzazione della loro causa, catalizzando l’attenzione dell’URSS, che della Turchia divenne avversaria strategica, soprattutto dopo l’adesione di Ankara alla NATO. A riprova di questo approccio ideologico, possiamo far riferimento al recente “processo di democratizzazione” del PKK, divenuto sempre meno comunista, e sempre più prossimo alle impostazioni liberal-socialiste di estrazione occidentale. Oggi, il PKK rimane un’organizzazione terroristica, tuttavia, in occidente sembra trovare consensi crescenti, soprattutto all’interno della sinistra post-comunista europea, ma anche negli USA, dove il progetto di un “grande Kurdistan” comincia a trovare influenti estimatori, soprattutto tra le fila neo-con che non considerano di certo i trascorsi marxisti del PKK come un elemento politico pregiudiziale, essendo essi stessi una emanazione dell’internazionalismo marxista di derivazione trotskista. Del resto, oggi i curdi rappresentano fedelmente la sinistra occidentale, accusando notevoli difficoltà nel conciliare i loro retaggi socialiste con le nuove sofisticate posizioni liberal-socialiste su cui hanno dirottato la loro lotta rivoluzionaria dalla difesa delle masse popolari alla tutela delle libertà individuali e delle minoranze.
Il rilanciato attivismo curdo ha rimesso il dossier Kurdistan nelle agende internazionali delle potenze occidentale, allarmando il governo turco di Erdogan, per nulla disposto a cedere margini di autonomia ai curdi, giacché ciò vanificherebbe i suoi propositi geopolitici neo-ottomani ammantati di quell’islamismo che i curdi hanno iniziato ad identificare come elemento di regresso antitetico alla loro ideologia libertaria. Erdogan pur essendo l’antitesi ideologica di Mustafa Kemal, si ritrova nelle sue stesse condizioni, dovendo gestire un assedio geopolitico simile a quello fronteggiato da Ataturk nel primo novecento, quando il leader nazionalista turco riuscì a sventare lo smembramento della Turchia a cui, a quanto pare, le principali potenze occidentali non hanno rinunciato, rinnovando la sfida esistenziale alla Turchia. Erdogan, dovrà difendere l’integrità della Repubblica Turca da una posizione scomoda, ritrovandosi assediato dai propri alleati occidentali, e costretto a ricercare supporto tra i propri avversari regionali come la Russia e l’Iran. Presto o tardi Erdogan dovrà scegliere se continuare a permettere ai propri alleati di alimentare le ambizioni autonomiste curde nella regione, o bloccare un processo che verosimilmente porterà alla balcanizzazione dello stato turco, scelta che inevitabilmente si riverbererà sulla NATO, che il presidente turco potrebbe decidere di abbandonare trovando un accomodamento con la Russia di Putin e con l’Iran, agganciandosi a quel blocco euroasiatico che sembra coagularsi all’ombra dell’ascesa cinese.