Generale

RATING GEOPOLITICO PER IL 2020

Cosa ci dovremmo aspettarci dal prossimo anno?
Quali rischi incombono sullo scacchiere internazionale?
Anche quest’anno proviamo a scoprirlo insieme.

Prima di addentrarci nella nostra analisi, volevamo porgere i nostri migliori auguri di Buon Natale e di felice anno nuovo a tutti i nostri utenti e alle loro famiglie, che magari non ci conoscono, ma in fondo poco importa, perché se ci conoscete voi, in fondo, è un po’ come se ci conoscesse la vostra famiglia, poiché la conoscenza che avete tratto da qui l’avete sicuramente condivisa innanzitutto con i vostri cari, in un ambiente sicuramente libero dai sempre più stringenti standard del politicamente corretto imposti anno dopo anno dai potenti “censori dell’amore”, che al netto del loro supposto nome, in questo periodo dell’anno soffrono particolarmente. Tu che leggi, sappi di essere considerato parte di Torcia Politica, un fratello con una torcia idealmente animata da una comune passione verso la conoscenza delle dinamiche della politica, intesa come azione che nasce dalla conoscenza e che mira a migliorare il mondo in cui viviamo.

Chi ci conosce saprà che Torcia Politica opera da circa 3 anni, e solo nell’ultimo anno abbiamo riscontrato più di 2200 contatti raggiunti, un aumento di circa il 100% rispetto all’anno scorso. Numeri certamente irrisori se paragonati a quelli dei mass-media o dei principali blog della rete, ma che ci lusingano molto, soprattutto visto e considerato le limitate risorse economiche e temporali a nostra disposizione. Come potete vedere non abbiamo nemmeno spazi pubblicitari all’interno del blog, e dallo stesso non guadagniamo nulla di monetizzabile. Gli unici soldi che riguardano il blog sono quelli che spendiamo per pagare l’hosting, e anche questi non ce li regala nessuno “sponsor interessato”, giusto per chiarezza. Ma mentiremmo se affermassimo di non aver guadagnato nulla da questo blog, perché il solo constatare che qualcuno legge il nostro umile lavoro basta a ripagarci con una moneta diversa da quella a corso legale, e passateci il termine, sicuramente meno inflazionata! Ad ogni modo, ringraziamo chi si è offerto di darci un contributo economico suggerendoci l’implementazione di un pulsante per le donazioni, che al momento non abbiamo, ma che non escludiamo di implementare in futuro. Quel che al momento è certo, è che il propellente che permette a Torcia Politica di ardere è la sola passione per la politica e la conoscenza, accompagnata dal desiderio di fornire informazioni basilari sui maggiori teatri di crisi a chi magari conosce poco la realtà da cui scaturiscono, e a cui spesso i mass-media dedicano poco tempo, distorcendo in non pochi casi il quadro e i giudizi dell’opinione pubblica, polarizzandola a vantaggio di alcuni e a danno di altri.

Come saprete, i nostri contenuti vengono pubblicati con una cadenza temporale alquanto larga, ma come nei casi dei focus, sono decisamente corposi, e cercano di sintetizzare in più parti il background dei principali teatri di crisi, fornendo interessanti spunti di riflessione e di ulteriore ricerca ai lettori. Ricerca che in quanto tale deve essere intesa come un percorso dinamico e continuo, in cui si mette in dubbio tutto, per scoprire quelle dimensioni della verità che taluni occultano per troppa ignoranza o troppa intelligenza.
Per Torcia Politica ogni contatto è più che un numero, è una persona che apprezza la nostra visione del mondo, e a cui ci sentiamo legati pur senza conoscerla. A tal proposito, approfittiamo quest’occasione per ringraziare i nostri followers che ci seguono su Twitter, che ci sostengono condividendo le nostre riflessioni, e con cui spesso abbiamo il piacere di scambiare opinioni in modo franco, ma rispettoso, eccetto qualche spiacevole caso che ci ha costretto a prendere misure restrittive che cerchiamo sempre di evitare, laddove è possibile.
L’anno scorso ci siamo proposti di crescere, e lo abbiamo fatto grazie al vostro prezioso aiuto. Aiuto che vi chiediamo di rinnovare per l’anno seguente, condividendo i nostri articoli così da permettere a questo blog di crescere e farsi sentire tra le altre voci in campo. Aiutarci è gratis, basta condividere i nostri articoli, perché se è vero che da questo blog ci guadagniamo zero, rimettendoci pure, è anche vero che lasciare un like o un retweet è un modo semplice ed economico con cui gratificarci, allontanando l’idea che l’impegno profuso sia stato tempo perso.
Ma adesso basta, torniamo a fare luce sul mondo della politica!

RATING DI RISCHIO GLOBALE

Anche quest’anno proviamo ad azzardare qualche previsione sull’intensità delle crisi che interesseranno i principali paesi del mondo nel prossimo 2020. Anche questa volta prenderemo in prestito dal glossario finanziario il concetto di rating, applicandolo alla politica internazionale, cimentandoci nell’elaborazione di una sorta di “rating geopolitico” finalizzato alla valutazione del grado di rischio di esposizione a fonti di instabilità dei vari paesi considerati. La nostra analisi prevedrà 3 classi di rischio (A,B e C), integrate dal loro grado di esposizione a ulteriori fattori degradanti della loro situazione vigente (outlook positivo) o a fattori stabilizzanti (outlook negativo). Nello specifico, tra i paesi con classe di rating A abbiamo incluso paesi in cui è in corso un conflitto, mentre tra i paesi con classe di rating B abbiamo incluso quelli con crisi politiche particolarmente esposte al rischio di un escalation militare, infine nella classe di rating C abbiamo incluso quei paesi stabili ma potenzialmente esposti al rischio di destabilizzazione politica.

PAESI CON CLASSE DI RISCHIO A

UCRAINA-RUSSIA:

Dalla crisi politica del 2014 che ha portato al rovesciamento del governo ucraino presieduto da Yanukovich, la Crimea è tornata ad essere parte della Federazione Russa, con tutto quello che ne consegue in termini di proiezione strategica sul Mar Nero e l’est Europa. L’outlook positivo assegnato l’anno scorso a questa crisi ha trovato conferma in occasione dell’iniziativa navale con cui il precedente governo ucraino guidato dall’ex-presidente Poroshenko ha tentato di forzare il blocco navale che i russi avevano predisposto sugli stretti di Kerch, mentre veniva ultimato il ponte che da qualche mese collega la Crimea alla Russia, finendo per perdere naviglio ed equipaggio. Iniziativa folle, tanto quanto il governo che qualche mese fa è stato rimpiazzato da uno nuovo, presieduto da un comico in aspettativa. Nuovo governo che almeno per il momento sembra caratterizzato da una minore animosità retorica nei confronti della vicina Russia, il che suggerisce la volontà di mantenere quantomeno congelato il conflitto che è tutt’ora in corso nel Donbas, dove l’esercito ucraino fronteggia l’insurrezione della cospicua comunità russofona locale, sostenuta più o meno discretamente da Mosca.

Tra l’altro, al momento Kiev avrebbe notevoli difficoltà ad ottenere maggiore supporto dagli Stati Uniti, soprattutto dopo lo scandalo che rischia di costare l’impeachment al Presidente Trump, proprio alla vigilia delle elezioni presidenziali. Sul lato russo, difficilmente i separatisti oseranno mosse ardite, preferendo il consolidamento delle posizioni al momento tenute, anche perché la volontà politica dei loro sponsor russi è quella di ricomporre la crisi politicamente, giungendo ad un qualche tipo di accordo che punti a mantenere l’Ucraina strategicamente neutrale, precludendogli l’ingresso nella NATO. Proposito russo che l’amministrazione Trump non sembra poi disdegnare tanto, ma a cui l’establishment USA non intende affatto rinunciare. Incognita che ci induce a considerare aperta la possibilità eventi anomali finalizzati a sabotare l’eventualità di un accordo strategico tra Putin e Trump, sul cui supposto rapporto particolare si è lungamente speculato durante tutto il primo mandato del tycoon, senza tuttavia avere l’ausilio di alcuna prova degna di nota. Sicché, in mancanza di eventi anomali, riteniamo altamente remota la realizzazione dell’inflazionatissima minaccia di un’invasione russa su larga scala, che i mass-media propinano con insistenza all’opinione pubblica. A conferma di quest’indirizzo, possiamo fare riferimento all’accordo sul transito del gas recentemente raggiunto proprio da Mosca e Kiev. Dinamica che non dovrebbe compromettere gli accordi di Minsk che la Russia ritiene fondamentali per la risoluzione della crisi ucraina. Alla luce di queste considerazioni, riteniamo di declassare la crisi tra Ucraina e Russia da un rating A con outlook positivo, a un rating B con outlook negativo.

SIRIA

L’anno scorso, prevedendo l’avvio di un lungo e tortuoso processo di de-escalation, avevamo assegnato alla crisi siriana un rating A con un outlook negativo. Gli sviluppi di quest’anno ci hanno dato ragione (vedere per credere, andate a rileggervi il rating dell’anno scorso), permettendo all’esercito siriano di ripristinare il controllo governativo sulla gran parte dei confini settentrionali, precedentemente occupati dalle milizie curde YPG spalleggiate forze di occupazione americane. Certamente si combatterà molto anche quest’anno, soprattutto attorno alla roccaforte islamista di Idlib, ma si tratterà di combattimenti risolutori, e le possibilità che venga liberata nel corso del prossimo anno crescono giorno dopo giorno. La de-escalation del teatro siriano è stata indubbiamente agevolata dal ritiro americano dal nord-est siriano occupato dai curdi. Va comunque detto che la decisione del Presidente americano Trump non è stata delle più agevoli, e continua ad essere contrastata dal deep state, che di lasciare la Siria proprio non vuole saperne, desiderando prolungare la collaborazione con la branca siriana dei terroristi comunisti del PKK curdo, anche a costo di perdere l’alleato turco. La pressione neocon su Trump è così forte da averlo costretto a mantenere almeno la simbolica occupazione dei pozzi petroliferi del nord-est della Siria, facendo la figura del duro che combatte per il petrolio, anche se in realtà si parla di quantitativi irrisori, sebbene vitali per i cittadini siriani, che anche questo inverno soffriranno un freddissimo inverno, grazie al “sensibile” embargo umanitario predisposto dai paesi occidentali che dicono di volerli aiutare.

Durante l’anno prossimo è probabile che i curdi inizino a trattare seriamente la concessione di uno statuto autonomo, possibilmente mediando la restituzione dei pozzi petroliferi da parte dei loro infidi alleati americani. Anche se non è da scartare la possibilità che i curdi sfruttino i repentini cambi di strategia americana per perseguire un improbabile indipendenza, che potrebbe essere favorita dall’eventualità di una sconfitta di Trump alle presidenziali, data la forte simpatia che il movimento terroristico marxista YPG incontra tra le fila neocon e democratiche. Ad ogni modo, la situazione continuerà a stabilizzarsi, anche perché i curdi sembrano aver seguito i suggerimenti russi, smilitarizzando la fascia di sicurezza chiesta e ottenuta dalla Turchia di Erdogan al culmine di una lunga e complessa trattativa con Putin. Tuttavia, la risoluzione della crisi siriana passa dalla risoluzione del nodo della riserva naturale islamista di Idlib, che Erdogan fatica a disinnescare, temendo pericolosissimi ritorni di fiamma jihadisti. Erdogan passerà il prossimo anno a dividere i qaidisti dagli “islamisti moderati”, predisponendo una delicata operazione cosmetica finalizzata a portare al tavolo negoziale i loro poco presentabili proxy. Su questo lento processo incombe l’impazienza russa, sempre meno capace di imbrigliare lo scalpitante esercito siriano, che oramai intravede all’orizzonte la liberazione della roccaforte ribelle di Idlib, le cui modalità di liquidazione forniranno un’utile cartina di tornasole dell’effettivo grado di intesa strategica raggiunta da Russia e Turchia. Infatti, se il nodo Idlib si risolverà politicamente, allora l’asse Mosca-Ankara dovrà essere considerato un’incontrovertibile realtà, ma se al contrario, la contesa si dovesse risolvere manu-militari allora questa partnership ne uscirebbe pesantemente incrinata, a meno che Erdogan decida di abbandonare progressivamente al loro destino i suoi scomodi proxy, con tutto quello che ciò comporta in termini di stabilità interna.

Altra questione aperta è quella con Israele, che nel corso dell’anno ha continuato ad effettuare incursioni aeree contro postazioni ritenute di pertinenza dei Pasdaran iraniani. I russi, dopo l’abbattimento del loro Il-20 hanno deciso di consegnare il sistema antiaereo S-300 ai siriani, anche se, ad oggi, i siriani non hanno il pieno controllo del sistema, che infatti è rimasto inerte nel corso delle recenti incursioni israeliane, a conferma dell’approccio cauto e pragmatico con cui Mosca tratta Tel Aviv. I russi, infatti, rivendicano una posizione neutrale e terza alla contesa tra Iran e Israele, e soffrono sia le spavalderie israeliane che lo scomodo condominio siriano con gli iraniani. Teheran, al momento non ha piani di aggressione, e mira a consolidare le posizioni guadagnate combattendo a fianco dell’alleato siriano, mantenendo una sicura linea di rifornimento per gli hezbollah libanesi. Dal canto suo, Israele vorrebbe liquidare l’insidia iraniana ingaggiandola adesso, sfruttando la stanchezza militare e finanziaria dei Pasdaran. Alla luce di queste considerazioni, riteniamo che su questo versante, l’anno prossimo continuerà sulle note di quello appena trascorso, ma con il serio rischio che alla prima occasione utile, ma mediaticamente ben pagante, i russi vendichino l’abbattimento dell’Il-20, lasciando che gli S-300 siriani si prendano una piccola-grande rivincita sugli israeliani, magari tirando giù uno o più jet di Tel Aviv, evento che rinverdirebbe anche i legami con Teheran, e che alle giuste condizioni potrebbe mettere in imbarazzo persino gli Stati Uniti, ad esempio nel caso dell’abbattimento di un F-35 israeliano, ipotesi possibile, ma che comunque riteniamo altamente improbabile, anche perché a Tel Aviv sono a ben consapevoli di questa insidia già da qualche mese. Alla luce di queste considerazioni, confermiamo la previsione dell’anno scorso, assegnando alla crisi siriana un Rating A con outlook negativo.

YEMEN

L’anno scorso abbiamo assegnato alla crisi yemenita un rating A con outlook negativo, previsione che non si è concretizzata. Infatti, i ribelli zayditi Houthi non solo hanno dimostrato di resistere ai potenti mezzi militari delle principali petro-monarchie arabe, ma in alcune circostanze sono stati addirittura in grado di sbaragliarle, sconfinando in più occasioni all’interno del territorio saudita, prendendo ostaggi, e bersagliando città e raffinerie con missili cruise e droni, verosimilmente fatti filtrare tra le maglie dell’embargo dai loro alleati iraniani. Le pessime performance ella coalizione araba sono state recentemente aggravate dalla divisione tra sauditi ed emirati, con i secondi che dinnanzi alle palesi difficoltà sul campo hanno preferito scaricare la compagine di governo sostenuta da Riyadh, promovendone una propria. L’incapacità araba di venire a capo della crisi yemenita potrebbe indurre la coalizione araba, o parte di essa, a cercare un accomodamento con i ribelli Houthi, soprattutto da parte emiratina, mentre per i sauditi una simile eventualità avrebbe un sapore decisamente più aspro, giacché significherebbe riconoscere l’influenza iraniana, permettendo a Teheran di minacciarli sia da est che da sud. Se un accomodamento non verrà trovato, nel corso del prossimo anno è più che lecito aspettarsi nuove incursioni aeree da parte degli Houthi, con probabili strascichi sul traffico commerciale sul Mar Rosso. Inoltre, è altamente probabile che un’eventuale escalation militare in Iran possa innescare un’insidiosa e imprevedibile rappresaglia missilistica delocalizzata che dallo Yemen si proietti contro l’Arabia Saudita, Israele o le basi americane nella regione. Alla luce di queste considerazioni, riteniamo di confermare la previsione dell’anno scorso, assegnando alla crisi yemenita un rating A con outlook negativo.

LIBIA

L’anno scorso abbiamo assegnato alla crisi libica un rating B con outlook positivo, rilevando i segnali di debolezza provenienti dal governo tripolino presieduto da Serraj, messo alle strette dalle infide milizie che lo sostengono. Difficoltà che sono state puntualmente approfittate dalla nemesi cirenaica guidata dal potente generale Haftar, sostenuto più o meno discretamente da Egitto, Russia, Francia e, a quanto sembra, anche dagli Stati Uniti, che tuttavia, almeno per il momento, sembrano tenere il piede in due staffe. Nello specifico, Haftar, forte di un esercito decisamente più strutturato, è riuscito ad avanzare verso ovest tentando addirittura la conquista di Tripoli, impedita solo dal non indifferente potenziale conservato dalle milizie di Misurata, il vero braccio armato del fragile governo di Tripoli. Ad oggi, Haftar gode di una posizione privilegiata rispetto a Serraj, ma manca delle risorse utili a vincere Misurata, senza di cui sarà decisamente improbabile ottenere una risoluzione duratura della crisi libica. Con ogni probabilità, i prossimi sviluppi della crisi verranno determinati dalle risposte che i due governi riceveranno dai loro alleati esterni. Nello specifico, Tripoli continua a godere dei finanziamenti del Qatar, dei rifornimenti militari turchi e del discreto, e sempre meno convinto, sostegno italiano. Mentre Haftar continua a godere del risoluto supporto egiziano ed emiratino, con più defilati russi e francesi.

Le due parti faticano a giungere ad un accordo per la pacificazione che ad oggi sembra lontano, quanto necessario. Ma la tentazione di Haftar a giocarsi il tutto per tutto è grande, tuttavia, la sua età avanzata basta a suggerire la temerarietà di un simile scenario, che nel medio-lungo periodo potrebbe rivelarsi decisamente effimero, riconfigurando quel vuoto di potere lasciato all’indomani dalla brutale esecuzione di Muammar Gheddafi. Figura ingombrante, che al netto delle ambizioni, Haftar non sembra assolutamente in grado di eguagliare. Quella del generale Haftar è una pericolosa illusione alimentata dall’indiscutibile, ma pericolosissima, fragilità del governo di Serraj, troppo debole per governare, ma troppo difficile da rimpiazzare per tutta una serie di ragioni tribali e geopolitiche che sembrano destinate a perpetuare il caos libico almeno per i prossimi mesi, dove di certo non mancheranno i colpi di scena, che se si verificheranno, deriveranno più da dinamiche internazionali che da logiche interne. Per queste ragioni incrementiamo il rating libico dal livello B al livello A con outlook positivo.

PAESI CON CLASSE DI RISCHIO B

ISRAELE

Come preventivato nel rating dell’anno scorso, anche quest’anno abbiamo costatato il protrarsi della serie di micro-escalation tra Israele e Hamas in quel di Gaza, mentre l’eventualità di un’escalation più a nord con gli Hezbollah libanesi è stata fino a d oggi scongiurata, anche se non sono mancati elementi di attrito, derivanti dalle incursioni di droni di ricognizione israeliani. Di certo, le minacce più rilevanti per lo stato israeliano provengono dal quadrante libanese, dove gli Hezbollah possono contare su di un vasto arsenale missilistico di derivazione iraniana, che non fanno mistero di voler utilizzare in caso di escalation. La prospettiva di un nuovo scontro israelo-libanese, su cui vigila la missione UNIFIL dispiegata sul confine, difficilmente si realizzerà, almeno fintanto che Israele continuerà a violare lo spazio aereo libanese astenendosi dall’aggredire Hezbollah. Prospettiva che tuttavia potrebbe mutare repentinamente in caso di un’aggressione diretta o indiretta contro l’Iran. Ipotesi, questa, che rischierebbe di esporre Israele ad una probabilissima rappresaglia missilistica che potrebbe provenire innanzitutto dall’Iran, ma collateralmente anche da Siria, Libano, Iraq o persino dallo Yemen, dove i ribelli Houthi hanno dato prova delle loro capacità balistiche.

Gli israeliani sono riusciti ad ottenere dai loro alleati americani lo stralcio dell’accordo sul nucleare iraniano, ripristinando lo stato di quarantena internazionale attorno a Teheran, che da parte sua ha reagito riprendendo progressivamente il suo programma nucleare. Prospettiva che allarma gli israeliani, e che potrebbe indurli a rompere gli indugi, azzardando un raid contro le infrastrutture nucleari iraniane dagli esiti imprevedibili, soprattutto perché difficilmente riuscirebbe a coinvolgere gli Stati Uniti, dove nei prossimi mesi il presidente americano Trump si giocherà la rielezione.
Parallelamente a queste minacce prioritarie, come previsto l’anno scorso, si sono puntualmente intensificate le frizioni marittime con la Turchia, relativamente alle rivendicazioni territoriali che la Turchia sta avanzando nel Mediterraneo a danno di Cipro, con cui da qualche anno Tel Aviv sta cooperando in ambito energetico, sostenendo la prospettiva di un gasdotto diretto in Europa, che rischia di infrangersi contro la crescente assertività turca. Quadrante mediterraneo che potrebbe presentare qualche sorpresa nel corso dell’anno, dove la possibilità di uno scontro navale tra turchi e israeliani non sono poi così remote. Alla luce di queste considerazioni assegniamo alla situazione in Israele un rating B con outlook positivo.

TURCHIA

Come preventivato l’anno scorso, la Turchia è arrivata alla resa dei conti con gli Stati Uniti, esigendo la liquidazione della guerriglia curdo-siriana, affiliata all’organizzazione terroristica PKK. Il Presidente Erdogan ha ingaggiato un temerario braccio di ferro con l’amministrazione USA, riuscendo nell’impresa di espellere dai confini meridionali con la Siria non solo i terroristi curdi, ma persino gli stessi americani, costringendoli a ritirarsi nel vicino Iraq. Successo strategico che Erdogan è riuscito ad ottenere grazie alla sua spregiudicata politica internazionale, con cui è riuscito a convertire un avversario come la Russia, in un’opportunità strategica. Il rapporto particolare che Erdogan è riuscito ad instaurare con il presidente russo Putin ha permesso al leader turco di svincolarsi in tempo dalla morsa dei suoi infidi alleati NATO, sulle cui intenzioni sembra non nutrire più alcun dubbio, dopo la delusione occidentale derivante dal fallito golpe del 2016. L’acquisto del sistema antiaereo russo S-400 dimostra palesemente che ad Ankara si sentono minacciato più da ovest che da est. Iniziativa che gli USA sembrano intenzionati a rispondere con sanzioni, a cui il governo turco non ha fatto mistero di voler replicare a propria volta, anche con misure drastiche come l’espulsione americana dalla base di Incirlik, dove sono dislocate un numero imprecisato di testate nucleari tattiche. Scenario che, se realizzato, certificherebbe l’uscita della Turchia dalla NATO, sintonizzandola sulle frequenze strategiche di Mosca, a cui potrebbe iniziare a rivolgersi per ristrutturare il proprio apparato militare, iniziando dall’acquisto di mezzi aerei con cui sopperire all’esclusione dal programma f-35 recentemente disposta da Washington.

Così come ipotizzato l’anno scorso, l’intraprendenza turca nel Mediterraneo si intensificherà stringendo la morsa su Cipro, sabotando le ambizioni energetiche del consorzio strategico composto da Israele, Grecia ed Egitto, con cui nei prossimi mesi si potrebbero configurare contrasti navali, soprattutto alla luce dell’intesa sulle ZEE che Erdogan ha trovato con la sua controparte libica di Serraj, a cui addirittura intende dare man forte, schermandolo dall’aggressività del generale Haftar. Libia dove si potrebbe giocare una delle prime partite decisive per i futuri assetti del Mediterraneo. I fermenti internazionali non devono poi marginalizzare la prospettiva di una rivoluzione colorata finalizzata alla rimozione di Erdogan e alla normalizzazione della Turchia all’interno dello scacchiere occidentale. Caos su cui conta la guerriglia curda del PKK, galvanizzata dall’esperienza siriana, seppur sotto le mentite spoglie YPG. Infine non vanno sottovalutati i possibili contraccolpi interni dovuti al progressivo abbandono dei miliziani islamisti più radicali in Siria. Alla luce di queste considerazioni confermiamo alla situazione turca un rating B con outlook positivo.

LIBANO

L’anno si è concluso con una serie di manifestazioni pubbliche che hanno portato alle dimissioni del governo di Beirut. Ma le dimissioni dell’ormai ex-premier Hariri non sembrano accontentare la piazza, dove alcune componenti sembrano esigere addirittura un governo tecnico. Un escamotage con cui talune forze facilmente identificabili riuscirebbero a mettere in quarantena Hezbollah, e con esso l’influenza iraniana nel paese, identificata da alcune delle fazioni manifestanti come la causa della loro pessima condizione socio-economica. Nei prossimi mesi queste dinamiche politiche destabilizzeranno il clima libanese, incrementando la pressione su Hezbollah, provando a metterla con le spalle al muro, con il serio rischio di scatenare una nuova guerra civile. Prospettiva che per alcuni paesi, come Israele, sarebbe decisamente comoda, ma che comporta il non indifferente rischio di innescare un escalation a somma zero, perché in Libano Hezbollah controlla migliaia di missili a corto e medio raggio che rischiano di esporre gli israeliani ad una minaccia concreta a cui negli ultimi decenni non era più abituati. Minaccia balistica che potrebbe essere scatenata nel caso in cui Israele decidesse di colpire Hezbollah, o nel caso in cui decida di aggredire a sorpresa l’Iran, a cui il movimento sciita è legato a doppio filo. Alla luce di queste considerazioni confermiamo alla situazione libanese un rating B con outlook postivo.

VENEZUELA

Nel corso dell’anno il governo venezuelano presieduto da Maduro è stato interessato da una serie tentativi golpisti predisposti dall’opposizione guidata dal presidente della camera Guaidò che, sostenuto dagli USA, è arrivato ad autoproclamarsi presidente, senza tuttavia riuscire veramente a conquistare il potere, a causa della fedeltà delle forze armate al governo legittimo. Governo bolivariano che resiste, ma la cui popolarità degrada con il trascorrere del tempo, e su cui le sanzioni americane agiscono da catalizzatore sociale. Nel corso dell’anno appena trascorso, gli USA hanno più volte minacciato di intervenire per risolvere la crisi venezuelana, ma un po’ per il ruolo della Russia, un po’ per l’incombenza della prossima tornata presidenziale hanno preferito sorvolare, anche perché senza il supporto dei militari venezuelani non è possibile rovesciare il governo di Maduro. La prospettiva di una guerra civile resta sempre possibile, ma la possibilità che abbia successo senza il supporto americano sono irrisorie, soprattutto alla vigilia delle elezioni presidenziali americane. Senza contare gli strascichi che una simile prospettiva potrebbero configurarsi nella vicina Colombia, dove il processo di pace con la guerriglia arranca. Ragion per cui è lecito aspettarsi l’avvio di un tavolo negoziato tra governo e opposizione, in vista delle prossime elezioni parlamentari venezuelane. Alla luce di queste considerazioni assegniamo alla situazione in Venezuela un rating B con outlook negativo.

ARABIA SAUDITA

L’anno scorso avevamo avanzato i rischi derivanti dalla prepotente ascesa politica del principe Mohammad Bin-Salman al-Saud (MBS), alle prese con le riserve che sottotraccia attraversano la dinastia saudita. L’età avanzata di Re Salman al-Saud rappresenta la fortuna del giovane e ambizioso principe, ma anche una grande incognita, giacché pone dei limiti temporali al consolidamento del suo primato sui membri anziani di casa Saud. Di certo durante il prossimo il prossimo anno i due traghetteranno la compagnia petrolifera nazionale (ARAMCO) nell’attesissimo percorso multimiliardario di privatizzazione, da cui MBS confida di trarre le risorse per il suo ambizioso piano “Vision 2030”, con cui intende riformare la più influente e conservatrice delle petro-monarchie del golfo persico. Prospettiva che tuttavia non convince del tutto gli ambienti più conservatori, dove in particolar modo si teme la ventilata possibilità che il regno possa riconoscere ufficialmente lo stato di Israele. Ipotesi che potrebbe innescare dinamiche difficilmente controllabili dal giovane principe saudita, soprattutto in una fase in cui necessita di consolidare la propria base di potere. Ambizioni riformiste che negli ultimi mesi sono state ingolfate dall’efferato omicidio del giornalista dissidente Kashoggi, dall’inconcludente intervento nella guerra civile yemenita e dalla guerra fredda intrapresa con il vicino Qatar.

Nel corso del prossimo anno è probabile che MBS ricalibri la sua strategia, ripristinando progressivamente i contatti con il Qatar, possibilmente intavolando anche negoziati propedeutici alla fine del conflitto yemenita, al fine di congelare l’insidia balistica che negli scorsi mesi a messo a repentaglio le infrastrutture petrolifere del regno. Approccio che permetterebbe di razionalizzare meglio le risorse da concentrare nello scontro strategico con il vicino Iran, intensificando gli sforzi per catalizzare ulteriormente l’aggressività USA nei confronti di Teheran, nonostante le prossime elezioni presidenziali suggeriscano il contrario. Tuttavia, l’avanzamento del programma nucleare, riaperto dopo il ripudio americano degli accordi JCPOA, pone l’incognita di un’iniziativa israeliana contro i siti nucleari iraniani. Ipotesi a cui gli iraniani potrebbero reagire bloccando lo strategico stretto di Hormuz, o addirittura bersagliando i principali siti petroliferi sauditi, con conseguenze finanziarie catastrofiche a sia a livello locale che globale. Detto questo, è più probabile che durante l’anno prossimo l’Arabia Saudita cercherà di disimpegnarsi da alcuni dei fronti temerariamente aperti gli anni precedenti, ma proprio dal rinnovato isolamento iraniano proverranno i più grandi rischi alla sicurezza saudita, dal momento che lo strangolamento commerciale americano ai danni di Teheran rischia seriamente di innescare rappresaglie asimmetriche contro l’estesissimo traffico petrolifero del golfo persico. Alla luce di queste considerazioni assegniamo all’Arabia Saudita un rating B con outlook negativo, anche se la sola esistenza di un’iniziativa israeliana basterebbe a rendere l’outlook quantomeno positivo.

IRAQ

L’anno scorso avevamo avanzato il rischio dello sfaldamento del fronte sciita governativo, che si sta realizzando sotto l’insidiosa strategia di al-Sadr. Dinamiche che hanno portato alla fine del governo di Mahdi. Fermenti politici che sono stati alimentati da manifestazioni popolari più o meno spontanei, che nel prossimo anno rischiano di ripristinare il clima da guerra civile da cui il paese sembrava essersi faticosamente liberato dopo la sconfitta dell’Isis. Caos che permetterebbe agli USA di destabilizzare la fortissima influenza che Teheran indiscutibilmente esercita sul governo di Baghdad. In particolar modo, gli USA temono la crescente rilevanza delle milizie sciite, e del loro potenziale balistico di produzione iraniana, che secondo l’intelligence americana sta strutturando nel paese al fine di moltiplicare il potenziale strategico di Teheran. Se durante le prossime settimane al-Sadr riuscirà a trovare la quadra con gli ambienti più vicini all’Iran, l’Iraq troverà un nuovo governo, ed eviterà il caos che invece inevitabilmente si scatenerà in caso contrario, e che al momento sembra essere una possibilità decisamente poco remota. Caos che se innescato potrebbe permettere alla regione autonoma del Kurdistan di rimettere mano al dossier indipendentista congelato solo qualche mese fa. A queste incognite si aggiunge la possibilità che l’Iran faccia leva sulle milizie sciite locali (armate di missili a corto raggio) per mettere in difficoltà gli USA, ingaggiandoli in un conflitto indiretto alla vigilia delle elezioni presidenziali, umiliando Trump, che in quel contesto avrebbe notevoli difficoltà ad aprire un confronto diretto difficile da spiegare all’opinione pubblica. Alla luce di queste considerazioni assegniamo alla situazione irachena un rating B con outlook positivo.

COREA

Il processo negoziale avviato sull’onda dell’offensiva diplomatica di Kim Jong-Un ha iniziato a segnare il passo nel corso di quest’anno, soprattutto dopo il fallimentare vertice di Singapore con il Presidente americano Donald Trump. I nordcoreani hanno subordinato l’avanzamento dei negoziati sul processo di denuclearizzazione alla revoca delle sanzioni internazionali che non si è mai effettivamente realizzata. Trattative su cui hanno verosimilmente inciso le dinamiche della guerra commerciale tra gli USA e la Cina, che nel corso dell’anno ha intensificato i rapporti con i propri alleati nordcoreani. Questo stallo negoziale potrebbe essere bruscamente interrotto da un nuovo test balistico, che potrebbe coinvolgere un missile a tecnologia propulsiva solida, o simulare il lancio di testate (inerti) a rientro multiplo. Impazienza che è stata palesata con il reiterato lancio di missili di artiglieria a corto raggio nel corse delle settimane scorse, e a cui si è aggiunto il recente test di un nuovo motore a terra. Se nelle prossime settimane gli USA non allenteranno le sanzioni contro Pyongyang, è altamente probabile che Kim Jong-Un ponga fine alla moratoria balistica concordata con Donald Trump, testando un nuovo ICBM che sebbene inerte, rischierebbe di danneggiare la sua corsa verso la rielezione. Kim Jong-Un, come altri, è consapevole dell’opportunità di questa contingenza, e verosimilmente la utilizzerà spregiudicatamente per piegare Trump, consapevole che nessun presidente sarebbe così folle da iniziare una guerra in piena campagna elettorale. Alla luce di queste considerazioni assegniamo alla crisi coreana un rating B con outlook positivo.

IRAN

Il ripudio americano degli accordi sul nucleare ha spiazzato il governo riformista di Teheran, e il ripristino delle sanzioni internazionali ha ricatalizzato i fermenti socio-politici nel paese, dove la situazione economica degrada giorno dopo giorno. Trump vorrebbe rinegoziare gli accordi con Teheran, imponendo limiti allo sviluppo di missili balistici, a cui però gli iraniani non intendono affatto rinunciare, ritenendoli un deterrente fondamentale contro possibili aggressioni esterne. L’isolamento in cui gli USA hanno ricacciato l’Iran ha destabilizzato il traffico commerciale nel golfo persico, dove tra sequestri e “incidenti” vari, si prevedono tempi difficili, soprattutto per gli interessi delle petro-monarchie arabe, su cui incombe la minaccia della chiusura dello stretto di Hormuz. Dinamiche su cui incombe la possibile ripresa della guerriglia secessionista curda, galvanizzata dal sostegno che le compagini curde di Siria e Iraq sono riuscite ad ottenere dagli Stati Uniti negli ultimi anni.
Nel corso dei mesi scorsi l’intraprendente politica estera iraniana è stata messa in difficoltà dalle crisi politiche che in sospetto sincrono si sono sviluppate in Iraq e Libano, due alleati fondamentali di Teheran. Il tutto mentre in Siria l’accordo tripartito con Russia e Turchia sembra reggere a vantaggio di tutti, nonostante i reiterati raid israeliani contro le postazioni avanzate dei Pasdaran, contribuiscano a rendere meno comoda la loro posizione. Israele, che nel prossimo anno potrebbe tentare un raid offensivo contro le infrastrutture nucleari iraniani, che il governo di Teheran ha ripreso a potenziare all’indomani del il ripudio americano del JCPOA.

Se l’incombenza delle presidenziali americane sembra allontanare la prospettiva di un’aggressione americana all’Iran, lo stesso non si può dire dell’eventualità di un raid israeliano, che potrebbe innescare una crisi devastante nell’anno che teoricamente dovrebbe essere tra i più calmi. Infatti, un’aggressione israeliana potrebbe suscitare una reazione iraniana che potrebbe andare dal blocco di Hormuz alla distruzione delle infrastrutture petrolifere arabe nel golfo persico, passando per un attacco alle basi militari USA nella regione fino ad massiccio attacco balistico iraniano ai danni di Israele, moltiplicato potenzialmente anche da basi libanesi, siriane, irachene e Yemenite. Ipotesi, che potrebbe addirittura essere devastante, se tra i missili dovesse essere imbarcata anche una testata nucleare, che sebbene Teheran non oggi non possiede, nessuno può essere sicuro al 100% che non esisterà nel prossimo futuro, e che possa eventualmente essere testata proprio in una simile occasione. Detto questo, al netto di queste ipotesi relativamente improbabili, nel corso del prossimo anno l’Iran sarà sotto pressione, sia all’interno, dove si potrebbero ripresentare movimenti di protesta più o meno radicali, che all’esterno, dove parallelamente ai tentativi di convincere gli europei a salvare l’accordo JCPOA, gli sviluppi delle crisi politiche di Libano e Iraq ci diranno tanto sul grado di solidità del progetto di proiezione strategico iraniano. Alla luce di queste considerazioni incrementiamo il rating iraniano da C con outlook positivo a B con outlook postivo.

INDIA/PAKISTAN

Come avevamo anticipato già l’anno scorso, la contesa del Kashmir rimane lo scenario in cui è più probabile che si raggiunga un escalation nucleare. India e Pakistan, infatti, vivono quotidianamente la possibilità di un conflitto più o meno esteso, su cui tra l’altro incombe la minaccia del terrorismo islamico, che già nei mesi scorsi ha rischiato di turbare i fragili equilibri strategici vigenti. A tutto ciò va aggiunta l’incognita delle posizioni critiche assunte dal governo indiano contro la popolazione musulmana e la crescente influenza cinese in Pakistan. Tutti elementi che rischiano di riproporsi nuovamente l’anno prossimo, il che basta ad incrementare il rating da C al livello B rating C con outlook positivo.

PAESI CON CLASSE DI RISCHIO C

CINA

La guerra commerciale intrapresa da Washington contro l’ascesa economica e strategica cinese, ha incrementato il livello di criticità politica in Cina. Dove le proteste di Hong Kong dell’anno scorso, si sono riproposte anche nel corso di quest’anno con ancora più violenza, destabilizzando l’ordine sociale del polo finanziario della locomotiva industriale mondiale. Proteste con una palese regia anglo-americana, e che li stessi manifestanti non nascondono scorrazzando in giro con bandiere a stelle e strisce. Dinamiche che verosimilmente potrebbero ripresentarsi nel corso dei prossimi mesi, soprattutto nel caso in cui i negoziati commerciali tra Washington e Pechino prendano una piega sfavorevole ai primi. A queste sfide si aggiungeranno quelle relative alla contesa marittima nel Mar cinese meridionale, e con Taiwan, che di recente ha siglato alcuni importanti commesse militari proprio con gli USA. A queste dinamiche va poi aggiunta l’incognita della Corea del Nord, che nel corso di quest’anno potrebbe riprendere il corso aggressivo degli anni precedenti. Aggressività certamente non rivolta contro Pechino, ma che potrebbe indurre gli Stati Uniti a dispiegare missili a raggio intermedio nella regione, mutando il vantaggio strategico che oggi i cinesi possiedono in quest’ambito. Alla luce di queste considerazioni confermiamo un rating C con outlook positivo.

UNIONE EUROPEA

Le elezioni europee dell’anno appena trascorso hanno confermato i precedenti equilibri politici, cementati dalla coalizione popolari-socialisti alle prese con il complicatissimo processo della BREXIT. Elezioni che hanno arginato l’avanzata sovranista, e con essa la possibilità di riformare gli elementi critici che rendono così impopolare l’Unione Europea. Detto questo, la neo-Presidente della Commissione europea Von der Leyen sembra aver smorzato un po’ le premesse dell’indirizzo franco-tedesco di smarcarsi dall’ingombrante influenza americana nel continente, e che impedisce all’UE di diventare un attore globale vero e pienamente indipendente. Rapporto di cui il gasdotto North stream 2 è utile cartina di tornasole, giacché palesa la volontà della Germania di potenziare i legami commerciali con la Russia, nonostante il netto parere contrario di Washington. Quel che è certo è che l’Unione Europea del prossimo anno sarà espressione del duopolio franco-tedesco, da cui l’Italia è stata esclusa sia sul piano politico, che sul piano militare. Infatti, se è vero che le strategie militari forniscono l’indirizzo strategico di una nazione per gli anni avvenire, allora la scelta franco-tedesca di escludere l’Italia dal consorzio europeo per la costruzione di un nuovo caccia dice molto, e quello che non dice lo suggerisce l’adesione italiana al programma concorrente Tempest, promosso non a caso dal Regno Unito fresco di Brexit. Infatti, al netto della retorica europeista, l’Italia nei fatti si conferma più una roccaforte anglo-americana che un baluardo europeista, malgrado a Roma molti si illudano di poter conciliare queste due prospettive sempre più divergenti tra loro. Ad oggi, i fatti dicono che la minaccia più grande all’integrità futura dell’Unione Europea proviene paradossalmente proprio dall’Italia, e alla sua prioritaria e ostinata fedeltà atlantica, che persegue la prospettiva di un Europa marcatamente atlantica, contrapposta a quella franco-tedesca che spinge per un’Unione marcatamente continentale, sulle cui sfumature nazionali, tuttavia, ci sarebbe moltissimo da dire. Per concludere, la tanto temuta minaccia russa continuerà ad occupare i media europei, ma l’intesa energetica recentemente raggiunta da Russia e Ucraina basta ad archiviare la minaccia russa nel cassetto dell’ordinaria amministrazione. Alla luce di ciò assegniamo all’Europa un rating C con outlook negativo.

QATAR

Negli ultimi mesi il Qatar sembra aver iniziato un processo di riavvicinamento con i suoi vecchi alleati del golfo persico che da qualche anno lo tengono isolato. Isolamento che Doha è riuscita a sostenere solo grazie all’alleato turco e al vicino Iran, nonostante le loro controverse relazioni bilaterali, che in Siria ad esempio li vedono contrapposti, al contrario della Libia, dove invece la strategia di Doha sembra convergere parzialmente con quella di Teheran. Ad ogni modo, l’intesa con Teheran ha sicuramente permesso agli iraniani di ottenere dai loro alleati turchi l’allentamento del sostegno al fronte ribelle siriano, contribuendo alla progressiva risoluzione della crisi siriana, i cui sviluppi positivi sono stati in qualche misura determinati anche da Doha. Nel corso del prossimo anno è più che lecito aspettarsi la progressiva ricomposizione della frattura con i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Distensione, di cui il Qatar necessita per preparare al meglio l’evento dei mondiali di calcio che si prepara ad ospitare nel 2022. Alla luce di queste considerazioni assegniamo al Qatar un rating C outlook negativo.

STATI UNITI

Come abbiamo avuto modo di scrivere l’anno scorso, il rischio che gli Stati Uniti vengano coinvolti in una crisi internazionale è prossimo al 100%, data la loro tradizionale propensione a intromettersi ovunque. Tuttavia, quest’anno riteniamo tale rischio meno rilevante, perché, almeno in teoria, sarà l’annata della campagna elettorale presidenziale. Donald Trump, nonostante la minaccia della procedura di impeachment, ha tutte le carte in regola per riconfermarsi alla guida degli Stati Uniti, ma la sua corsa verso la riconferma sarà ricca di ostacoli, sia interni, che esterni. Infatti, durante l’anno prossimo, la pressione interna nei confronti di Trump raggiungerà picchi mediatici elevatissimi, che contribuiranno ad alimentare un clima di fortissima polarizzazione sociale, dividendo gli USA come non mai, al punto da poter configurare anche lo scenario di una guerra civile a bassa intensità tra due visioni di America sempre più incompatibili tra loro. Trump potrebbe addirittura fare i conti con una primavera colorata finalizzata alla sua delegittimazione politica.
Tuttavia, i rischi più gravi alla rielezione del tycoon proverranno dall’esterno, sia da fronti nemici, che da fronti amici. L’incognita nemica più rilevante è quella proveniente dalla Corea del Nord, dove i negoziati con Kim Jong-Un sono rimasti al livello di photo opportunity, dal momento che la revoca delle sanzioni richiesta da Pyongyang non si è mai realizzata. Trump ha un accordo con Kim Jong-Un, sulla base del quale il leader nordcoreano si è impegnato a non effettuare test missilistici a lungo raggio. Tuttavia, la delusione delle aspettative nordcoreane, potenzialmente amplificata da Pechino, potrebbe indurre Pyongyang ad impallinare Trump, testando un nuovo missile balistico intercontinentale nel corso della campagna elettorale, umiliandolo dinnanzi al suo elettorato, esponendolo così alle accuse mediatiche di inadeguatezza dinnanzi alle sfide internazionali.

L’altra sfida, probabilmente più insidiosa di quella nordcoreana, proviene da Israele, che dopo aver ottenuto la fine degli accordi sul nucleare iraniano, pressa per un’iniziativa decisiva finalizzata alla liquidazione del programma nucleare, che Teheran ha recentemente ripreso a potenziare, per effetto del ripudio dell’accordo JCPOA. Condizioni queste che riducono a qualche mese la finestra temporale utile per impedire che Teheran riesca a confezionare un proprio arsenale nucleare, ammesso che lo stia effettivamente perseguendo. A Tel Aviv, infatti, importa relativamente poco delle sorti politiche di Trump, e potrebbero decidere di agire autonomamente, effettuando un raid aereo contro le infrastrutture nucleari iraniane, non curandosi delle conseguenze che inevitabilmente conseguirebbero da una simile iniziativa. Conseguenze sicuramente finanziarie, ma anche militari, dal momento che Teheran certamente risponderebbe drasticamente, mettendo Trump nelle condizioni di dover intervenire per difendere Israele o per vendicare una possibile rappresaglia iraniana contro le basi militari americane nella regione. Dinamiche su cui incombe il confronto commerciale ingaggiato con Pechino e strategico riaperto con Mosca. Per queste ragioni confermiamo agli USA un rating C con Outlook positivo.

BIELORUSSIA

La Bielorussia ha intrapreso un percorso negoziale finalizzato all’implementazione di un accordo di integrazione con la vicina Russia, oramai prossimo alla definizione. Il presidente Lukashenko si ritrova in una situazione delicatissima, che potrebbe innescare fermenti socio-politici simili a quelli già viste in occasione della crisi ucraina. Situazione in cui l’ipotesi di un’ennesima primavera colorata nello spazio post-sovietico non è affatto remota. Alla luce di quest’ultima considerazione assegniamo alla Bielorussia un rating C con outlook positivo.

ALGERIA

La fine dell’era Bouteflika ha lasciato il paese in uno stato caos controllato, su cui vigilano le forze armate. Caos che sembra essere stato risolto dalle recenti elezioni di Abdelmadjid Tebboune, eletto con il 58% dei consensi, a fronte però di una deludente affluenza del 39%, causata dal boicottaggio di molte forze politiche, deluse dalla portata del processo di transizione. Circostanze che sembrano annunciare un difficile periodo di instabilità politica che rende questo importantissimo paese, motivo di preoccupazione per l’Europa, che dipende in maniera rilevante dalle esportazioni sia di petrolio greggio che di gas naturale. L’esplosione di una fase di caos in Algeria configurerebbe una deflagrazione definitiva del Maghreb, dove la minaccia islamista continua a crescere. Tra l’altro, la difficile situazione algerina è anche influenzata dalle dinamiche che attraversano il vicino conflitto libico. Alla luce di queste considerazioni confermiamo alla situazione algerina un rating C con outlook positivo.

MESSICO

Rientrata parzialmente la crisi migratoria, adesso l’urgenza sembra essere diventata la guerra al narcotraffico che da anni dilania il paese. Caos che ha indotto l’amministrazione USA a potenziare il controllo sugli estesissimi confini, lasciando addirittura ipotizzare un impegno militare, associando la sfida rappresentata dal narcotraffico a quella terroristica. Se tale approccio troverà applicazione concreta il Messico rischia di diventare il teatro di una nuova tipologia di conflitto internazionale. Alla luce di queste considerazioni assegniamo al Messico un rating C con outloock positivo.

REPUBBLICHE CENTRO ASIATICHE

Man mano che il progetto della via della seta avanza aumentano i rischi che uno o più repubbliche centroasiatiche post-sovietiche finisca destabilizzata da una crisi politica interna o indotta da movimenti terroristici islamisti di cui la regione brulica. Scenario che metterebbe in seria difficoltà sia le prospettive economiche di Pechino che le prerogative strategiche di Mosca. Per queste ragioni assegniamo a questa regione un rating C con outlook positivo.