Generale

RATING GEOPOLITICO 2023

Anche quest’anno torna il “rating geopolitico” di Torcia Politica, ma prima di addentrarci nella nostra discutibilissima “analisi predittiva”, desideriamo fare una riflessione sulle prospettive di questo modesto blog, iniziando col porgere i nostro migliori auguri di Buon Natale e di felice anno nuovo a voi che ci leggete, e naturalmente a tutte le vostre famiglie, anche perché se co conoscete voi, in fondo, è un po’ come se ci conoscessero un po’ tutti i membri della vostra famiglia, dal momento che la conoscenza che avete tratto da questo nostro piccolo e modesto spazio telematico lo avrete sicuramente condivisa con i vostri cari all’interno delle vostre case, e probabilmente anche fuori. Oramai ci conoscete, ci piace parlare diretto e franco, e vogliamo ribadirlo anche quest’anno: Tu che stai leggendo queste righe sappi di essere considerato parte di Torcia Politica perché a modo tuo ti porti dietro una torcia idealmente animata dalla comune passione verso la politica, intesa come azione risoluta che nasce dalla conoscenza, e che ambisce a migliore il mondo in cui viviamo, anche se questo significa fare i conti con una mera utopia.

Chi conosce Torcia Politica saprà che il blog opera da circa 6 anni, e anche nel 2022 siamo riusciti quasi a triplicare i contatti registrati nel 2021, riscontrando circa 67.000 contatti. Numeri che rimangono certamente irrisori se paragonati con quelli dei mass-media e dei principali siti e blog che animano la rete, ma che continuano a lusingarci, soprattutto alla luce delle limitate risorse economiche e temporali a nostra disposizione. Come saprete continuiamo a non avere spazi pubblicitari all’interno del sito, da cui non guadagniamo nulla di monetizzabile. Gli unici soldi che interessano il blog sono quelli che spendiamo per pagare l’hosting, e anche questi non ce li fornisce nessuno “sponsor interessato” a quello che facciamo o trattiamo, giusto per chiarezza, e con buona pace di quei pochi temerari che anche quest’anno si sono sentiti in dovere di appiccicarci etichette gratuite, probabilmente per dare un senso alle proprie convinzioni, o magari perché in fondo loro si che hanno degli sponsor da compiacere, ma di questo poco importa. Per quel che ci riguarda, siamo e continueremo ad essere INDIPENDENTI nell’autentico senso della parola, rimanendo coerenti con i nostri principi, che riconfermiamo ribadendo di essere “dalla parte del torto” di questo tempo dominato da schemi preconcetti e dalla dittatura del politicamente corretto, sempre pronti a controbilanciare la faziosità che trasuda dai sedicenti “media indipendenti”. Tra noi e loro, naturalmente c’è la verità, una dimensione della realtà incontestabile che non raccontiamo noi, ma nemmeno loro. La verità, purtroppo è fuori dalla portata di chiunque, e rappresenta una dimensione che spetta a voi ricostruire con cura, attingendo a tutte le parziali fonti disponibili, utilizzando razionalità e neutralità, preziosissime doti spesso offuscate da una realtà faziosa che ci vuole in perenne contrasto gli uni rispetto agli altri, solo perché stanno dall’altra parte della barricata. Ognuno di noi ha la propria vita, la propria storia, le proprie idee ma, se ci permettete un’incursione nelle vostre vite, non permettete mai al vostro percorso di precludervi l’opportunità di dare ragione a chi proviene da strade diverse dalla vostra, perché il buon senso non ha collocazione politica, ma è una scelta umana dettata dalla ragione. Ecco, militiamo dovunque ci capita di farlo, ma cerchiamo sempre di fare politica ragionevole, mettendo al bando le posizioni precostituite dietro cui si nascondono gli assassini della polis e degli interessi condivisi dei suoi cittadini.

Ritornando al blog, certamente i mass-media sono più accurati, strutturati e soprattutto meglio finanziati. Infatti, rispetto a loro, il nostro umile “lavoro” viene gratificato da una moneta ben diversa, meno inflazionata: la vostra preziosa considerazione, a cui attribuiamo un grandissimo e inestimabile valore. Sono dunque la passione per la politica e la vostra considerazione gli unici propellenti che mantengono accesa la fiamma di Torcia Politica, un progetto impostato nella primavera del 2017 in circostanze personali eccezionali, confidando di poter contribuire a fare luce su una dimensione della politica che ritenevamo fin troppo trascurata, adottando uno stile trasversale, spesso non capito, come i modesti numeri del nostro seguito ci ricordano. Al momento va bene così, anche se continuiamo a coltivare l’ambizione di vederli crescere, con l’ambizione di vederli supportare una visione del mondo capace di trovare maggior spazio, influenza e visibilità tra l’opinione pubblica. Questo blog continuerà ad approfondire la realtà politica, riportando la nostra visione delle dinamiche che interessano i vari teatri di crisi, mettendola a disposizione di chi magari conosce poco le realtà da cui scaturiscono, e a cui spesso i mass-media dedicano poco tempo, distorcendo in non pochi casi il quadro della situazione, e di conseguenza anche i giudizi dell’opinione pubblica, polarizzandola a vantaggio di alcuni e a danno di altri.

Come saprete, i nostri contenuti vengono pubblicati con una cadenza temporale alquanto larga, trattandosi di focus corposi in cui cerchiamo di sintetizzare in più parti una considerevole mole di informazioni che riteniamo possano costituire punti di riflessione idonei a stimolare la curiosità dei lettori, così da indurli ad approfondire individualmente. Curiosità che speriamo abbia permesso a molti di voi di intraprendere un percorso di ricerca personale, dinamico, trasversale e continuo, mettendo in dubbio tutto, giacché solo così si riesce ad indagare le varie dimensioni della verità che taluni occultano per troppa ignoranza o troppa intelligenza.

L’anno scorso ci siamo proposti di crescere, e lo abbiamo fatto grazie al vostro prezioso supporto, che vi chiediamo di rinnovare per l’anno che ci accingiamo a vivere tutti insieme, ognuno con il proprio percorso di vita. Aiuto che vi chiediamo di rinnovare, esortandovi a condividere i nostri contenuti, così da poter permettere a questo piccolo blog di continuare a crescere, in modo da guadagnarsi spazio tra l’opinione pubblica. Non chiediamo soldi, aiutarci è gratuito, basta condividere i nostri contenuti sulle piattaforme social, perché se è vero che da questo blog ci guadagniamo zero, rimettendoci pure, è anche vero che lasciarci un like o un retweet è un modo semplice e gratuito di gratificare il nostro lavoro, palesando la vostra presenza, e allontanando l’idea che l’impegno profuso sia stato tempo perso. Del resto, se ci seguite, è perché qui avrete sicuramente trovato  qualcosa che altrove non dicono, e che siamo sicuri vorreste sentire più spesso, spezzando quel monopsonio ideologico che a molti dà l’impressione di essere marginali. La realizzazione di questo proposito dipenderà da come vi spenderete per far diventare questo spazio di opinione pubblica all’altezza degli altri, dove spesso e volentieri le vostre idee ed i vostri principi sono marginalizzati o addirittura censurati. Dunque, un posto per le vostre idee oggi ce l’avete, è qui, e si chiama Torcia Politica. Se ci tenete, aiutateci a farlo crescere, facendo sì che un giorno la nostra voce risuoni forti tra le altre. Prima di concludere questa troppo lunga riflessione (scusateci siamo prolissi), vi invitiamo ad interagire con noi sul nostro canale Twitter, dove siamo molto attivi, e riportiamo notizie e riflessioni in modo più frequente che sul sito. Sarà un piacere interloquire come già avviene con molti altri lettori. Approfittiamo di questo spazio per ringraziare i nostri follower con cui abbiamo il piacere di interagire regolarmente scambiandoci opinioni e punti di vista in modo franco, ma sempre rispettoso.

Ma adesso basta, torniamo a fare luce sul mondo della politica!

RATING DI RISCHIO GLOBALE

Come è ormai nostra abitudine, anche quest’anno proviamo ad azzardare qualche previsione inerente gli scenari di crisi che potrebbero palesarsi nel corso del 2022. Ancora una volta prenderemo in prestito dal glossario finanziario il concetto di “rating”, applicandolo alla politica internazionale, cimentandoci nell’elaborazione di un “rating geopolitico” finalizzato alla valutazione del grado di rischio di esposizione a fonti di instabilità dei vari paesi presi in considerazione. La nostra analisi prevedrà 3 classi di rischio (A, B e C), integrate da una ulteriore valutazione inerente il loro grado di esposizione a fattori stabilizzanti (outlook negativo) o destabilizzanti (outlook positivo). Nello specifico, tra i paesi con classe di rating A abbiamo incluso paesi in cui è in corso un conflitto, mentre tra i paesi con classe di rating B abbiamo incluso quelli oggetto di dispute potenzialmente esposte al rischio di un escalation militare, infine nella classe di rating C abbiamo incluso paesi stabili, ma potenzialmente esposti al rischio di destabilizzazione politica.

L’anno appena trascorso ha messo alla prova molte delle nostre previsioni, certificandone alcune e smentendone altre. Ma chi ci segue sa benissimo che qui di verità in tasca non ne abbiamo, e del resto in un mondo in cui le previsioni meteo continuano a toppare, non si può certo pretendere che l’analisi politica vanti tassi di accuratezza migliori, soprattutto visto e considerato il gap tecnologico che divide questi due settori tanto popolari, quanto antitetici. Di certo, se possiamo azzardare una previsione generale possiamo sicuramente affermare che il prossimo anno possiede tutti presupposti per essere uno di quegli anni destinati a cambiare il corso della storia. Se avremo avuto ragione o torto, ce lo dirà l’esperienza che avremo modo di farci tutti insieme. Procediamo dunque!

RUSSIA-UCRAINA

L’anno scorso abbiamo assegnato alla situazione relativa alla Russia un rating B con outlook positivo, prevedendo sviluppi che in buona sostanza si sono presentati. Archiviate le elezioni ucraine, il neo-presidente Zelensky ha messo da parte il proposito di avviare un percorso di riconciliazione nazionale, mettendo in atto una serie di iniziative che hanno inevitabilmente riacutizzato il conflitto nella regione del Donbas. Svincolandosi dagli accordi di Minsk, e rimilitarizzando pesantemente la linea di contatto congelata al culmine del processo diplomatico mediato da Angela Merkel, sebbene l’ex-cancelliera tedesca abbia recentemente smentito l’essenza politica degli accordi. Questi sviluppi militari non hanno avuto un’origine casuale, ma sono derivanti conseguentemente all’elezione di Scholz in Germania e, soprattutto, di Biden alla Casa Bianca. Dinamiche politiche che hanno evidenziato al Cremlino la necessità di prendere rapidamente l’iniziativa diplomatica, auspicando il raggiungimento di un nuovo accordo finalizzato al recepimento delle esigenze di sicurezza di tutti i paesi del continente europeo. Richieste che, sebbene accolte in buona sostanza dalle principali cancellerie occidentali, faticheranno a trovare quella formalità sollecitata a più riprese dalla diplomazia russa. In pochi oramai ricordano il ciclo di vertici diplomatici che si sono susseguiti dalla fine del 2021 all’inizio del 2022, quando vi era ancora la possibilità di evitare la tragedia che si è consumata a fine febbraio, quando la Russia ha deciso di prendere l’iniziativa militare, attaccando l’Ucraina, rispondendo alle richieste di assistenza che i ribelli delle repubbliche separatiste del Donbas avevano lanciato per ben 8 anni. Periodo in cui la popolazione del Donbas è stata costantemente attaccata, vessata e umiliata da chi per patto costituzionale aveva il dovere di garantirne diritti, sicurezza e libertà. Situazione certamente complessa, ma che in pochi hanno avuto l’integrità di raccontare bene all’opinione pubblica che, spesso per ignoranza indotta, solo nel 2022 ha avuto modo di scoprire con sgomento di cartapesta l’esistenza di un conflitto scatenato molti anni prima da chi oggi si ritiene vittima di un aggressione non provocata. Ma non tutto ciò che viene raccontato coincide con la realtà, e per quanto la propaganda possa fuorviare l’opinione pubblica, la realtà ci dice che un governo eletto da chi confidava in quella riconciliazione accennata in campagna elettorale ha invece deciso di riportare i militari sulla linea del fronte congelata dagli accordi di Minsk. Se la guerra in Ucraina fosse stata una serie tv, sarebbe stata una serie con molti episodi tagliati e mai andati in onda. E anche se questo pezzo non è l’occasione giusta per ripercorrere tutti gli episodi occultati di questa terribile vicenda attuale, ma con una storia alle spalle, riteniamo giusto evidenziarne quantomeno l’esistenza a chi adesso legge, esortandovi a documentarvi in maniera acritica, approfondita e indipendente su ciò che è realmente accaduto in Ucraina dal 2014 in avanti. Qui, almeno per il momento, non ci riteniamo in grado di documentarvi come questa vicenda merita, ma chi avrà la voglia di farlo non avrà difficoltà a trovare contributi di gente in grado di farlo come si deve, rendendo onore al mestiere di giornalista, anche a costo di pagare un prezzo che chi vi scrive su questo modesto blog non ha voluto pagare, semplicemente perché non sopporta l’idea di pagare dazio alla propaganda editoriale di chi ha interesse ad affermare una narrazione a senso unico. Conclusa questa controversa, ma doverosa, parentesi, procediamo a condividere quelle che riteniamo siano i rischi futuri a cui va incontro la Russia, e di conseguenza l’Ucraina.

Come recentemente ammesso dal presidente russo Putin, aspettare 8 anni, confidando in una soluzione diplomatica del conflitto nel Donbas, si è rivelata una scelta errata, poiché ha permesso all’Ucraina di fortificare pesantemente la regione, dove oggi avanzare di qualche chilometro richiede un costo spropositato in termini militari. Chiunque consulti una mappa del conflitto potrà benissimo appurare come in circa 9 mesi la linea del fronte nel Donbas non abbia registrato sostanziali mutamenti. La Russia ne era consapevole, ma al Cremlino si sono convinti di poter scardinare questo dedalo di fortificazioni stratificate adottando una strategia più politica che militare, che prevedeva l’accerchiamento di Kyev, il rovesciamento del governo ucraino e la conseguente sostituzione con uno più aperto a risolvere la crisi sul tavolo politico. Strategia che, al netto dei propositi ottimistici, già dopo le prime settimane si è infranta contro una realtà ben diversa da quella che l’intelligence russa aveva convinto il Cremlino a prendere l’iniziativa militare, sottovalutando l’avversario e calibrando male la consistenza numerica delle risorse militari necessarie al raggiungimento degli obiettivi definiti. E sebbene la Russia sia riuscita comunque a conquistarsi un precario corridoio fisico verso la Crimea, alla luce degli obiettivi originariamente ricercati, oggi si ritrova alle prese con un mezzo fallimento strategico, a cui sta cercando di porre rimedio, mutando l’approccio tattico e ricalibrando le risorse militari impiegate.

La Russia non ha mobilitato il suo pieno potenziale, e per non indebolire le forze destinate a controbilanciare strategicamente la Nato, ha provveduto alla difficile e impopolare decisione di integrare le forze destinate al fronte ucraino con 300.000 nuovi effettivi provenienti dalle forze di riserva, a cui in futuro potrebbero aggiungersene altri. Verosimilmente, in mancanza di una tregua, queste forze verranno presto impiegate per sostenere la nuova offensiva con cui al Cremlino confidano di chiudere una partita impostata male e progredita peggio. Forze nuove, certo, ma che a seconda del modo in cui verranno utilizzate potrebbero anche non bastare a sbaragliare un esercito ucraino fortemente debilitato, ma ben armato e non meno motivato. E proprio al fine di precludere gli essenziali rifornimenti militari occidentali all’Ucraina, la Russia potrebbe sfruttare nuovamente, ma con più decisione e organizzazione, il corridoio bielorusso, impiegando le nuove risorse mobilitate per sigillare le vie di comunicazioni che collegano l’Ucraina all’hub militare polacco. La mobilitazione disposta controvoglia dal governo di Mosca poteva essere sicuramente ben più consistente, ma probabilmente al Cremlino si continua a confidare in uno sviluppo politico favorevole del conflitto, preventivando l’implosione del governo ucraino per effetto del prezzo che la campagna di bombardamenti mirati alla disintegrazione delle infrastrutture energetiche inevitabilmente sortirà sulla società ucraina durante la stagione invernale. Come altre volte nella storia, il tempo scorre a vantaggio della Russia, dove sono convinti che più tempo passa e minori saranno le risorse che l’occidente sarà in grado di garantire all’Ucraina per resistere. Ecco, perché ad un certo punto, a meno di non considerare un catastrofico allargamento continentale del conflitto, la parte più debole di questo conflitto sarà costretta ad aprire seriamente al negoziato. Paradossalmente, sebbene oggi l’Ucraina sia nelle condizioni migliori per negoziare, a Kiev continuano ad insistere sulla linea dell’intransigenza, confidando di poter continuare a replicare la favorevole serie di controffensive, sebbene si prospetti una realtà ben peggiore di quella affrontata fino ad oggi, e su cui grava la pesante incognita delle risorse disponibile che l’occidente vorrà, o potrà, continuare a fornire. La Russia in Ucraina vuole vincere, e può farlo in varie modalità, ma riuscirci per vie politiche, come auspicato dal Cremlino, potrebbe intaccare seriamente la reputazione di un paese incapace di dimostrare all’atto pratico il potenziale militare di una potenza globale. Considerazioni che spiegano i fermenti all’interno della classe dirigente russa, tra i cui ranghi si sente la necessità di una vittoria militare netta, a prescindere dai “mezzi” e dal “prezzo”. Una mancata vittoria, infatti, sgretolerebbe la base di potere di Putin, scatenando i falchi che già volteggiano attorno al Cremlino, evidenziando, a chi oggi fatica a comprenderlo, che il moderato che in molti in occidente auspicano possa prendere le redini della Russia in realtà si trova già al potere.

Ad ogni modo, il prossimo anno, sarà l’anno che definirà il rango della Russia del futuro, e probabilmente non sarà un caso se si deciderà a Kiev, dove affondano le radici della Rus. E sempre a Kiev si dovrà fare attenzione perché man mano che la situazione interna si degraderà, la base di potere su cui si regge la presidenza Zelensky potrebbe sgretolarsi, lasciando il campo sia alla prospettiva di un élite più aperta al negoziato, così come è possibile che agevoli l’ascesa di una ben più radicale di quella attuale. A tutte le difficoltà della situazione in Ucraina si sommano poi le incognite relative alla Bielorussia, un alleato chiave, la cui stabilità potrebbe tornare ad essere turbata da una nuova mobilitazione delle forze di opposizione, o in alternativa da una qualche forma di incidente con uno dei paesi baltici integrati alla Nato, rischiando di portare il conflitto ad un nuovo e pericolosissimo livello. Ultimo rischio, remoto ma non meno rilevante, è quello che rimanda alla possibilità di un mutamento strategico della Turchia, che in Siria potrebbe precarizzare ulteriormente la situazione strategica della Russia. Per tutte queste ragioni riteniamo di assegnare alla Russia un rating A con outlook positivo.

SIRIA

Sebbene chi si informa sui media main-stream lo ignori, concentrandosi ad osservare criticamente il conflitto in Ucraina, esiste anche un altro paese che subisce un’occupazione militare che contraddice la Carta ONU. Quel paese è la Repubblica Araba di Siria, stato illegalmente occupato da anni da Stati Uniti e Turchia, in palese violazione del diritto internazionale. Nessuno ne parla, né tantomeno si sente la necessità di sanzionare, o anche solo condannare politicamente, questa realtà che dà la misura dell’ipocrisia di chi, per convenienza, adotta un peso e due misure. Fatta anche questa doverosa premessa, passiamo all’analisi della situazione siriana. L’anno scorso avevamo assegnato alla crisi siriana un rating A con outlook positivo, prospettando la liberazione della città di Idlib, l’ultima roccaforte in mano ai ribelli islamisti sostenuti dalla Turchia, ma non solo. Previsione smentita da una realtà strategica pesantemente stravolta dal conflitto sorto tra Russia e Ucraina. Con la Russia impegnata in Ucraina, si riducono drasticamente le possibilità che il governo siriano possa riprendere con forza l’avanzata verso i territori rimasti sotto il controllo islamista. Situazione che verosimilmente contribuirà a mantenere congelata l’attuale linea del fronte, rafforzando la posizione strategica della Turchia. La nostra previsione sullo scenario siriano ha trovato invece conferme sul piano politico, dove il governo turco ha avanzato la disponibilità a dialogare con quello di Damasco. I due paesi hanno già intrapreso i primi passi diplomatici in tal senso, e sebbene il presidente siriano Assad abbia delle riserve, un incontro con il leader turco potrebbe realizzarsi già il prossimo anno, avvalendosi proprio della mediazione russa. La Russia auspica, oggi più di ieri, la ricomposizione della crisi siriana, confidando di poter capitalizzare il processo di riconciliazione di questi due paesi su di un piano strategico comune, su cui potrebbe agevolmente convergere anche l’Iran, l’altro grande protagonista della crisi siriana. Le prospettive di questo scenario strategico, auspicato da Mosca, dipenderanno infatti da come Iran, Siria e Turchia riusciranno a concordare una soluzione all’insidia costituita dalle milizie curde sostenute dagli Stati Uniti. Se la Siria riuscirà a giocarsi bene le sue carte, potrà negoziare con Ankara il disimpegno dei suoi proxy trincerati a Idlib, assumendosi l’onere di convincere i curdi a subordinarsi al controllo di Damasco, in cambio di una larga autonomia che, se strutturata sul modello iracheno, potrebbe anche registrare il tacito placet statunitense. Questo scenario, oltre ad essere meno cruento, sarebbe anche il più praticabile de gestire sul piano politico, configurando mezzo vantaggio per tutti gli attori coinvolti, oltreché nessuno sconfitto. In caso contrario, gli sconfitti più probabili sarebbero i curdi, su cui incombe la prospettiva, più volte evocata da Ankara, di un’occupazione turca del nord-est della Siria. In breve, sui curdi incombe l’onere di scegliere se subordinarsi a Damasco, ottenendo garanzie autonomiste, o finire disarmati e assimilati dalla Turchia, godendo dello stesso trattamento riservato ai terroristi del PKK. Questi sono gli sviluppi che riteniamo più probabili in Siria, ma non possiamo concludere questa nostra “previsione” senza aver accennato alla remota possibilità che la situazione possa essere radicalmente stravolta da un ribaltamento strategico della Turchia, che dinnanzi alla prospettiva di una Russia indebolita e un Iran sotto crescente pressione internazionale, potrebbe riprendere a sostenere con forza i ribelli islamisti, mettendo alle strette le forze siriane. Ultimo appunto va riservato alla contrapposizione con Israele, che verosimilmente continuerà ad effettuare raid aerei contro obiettivi ritenuti di pertinenza iraniana. Per queste ragioni confermiamo alla Siria un rating A con outlook positivo.

YEMEN

L’anno scorso abbiamo assegnato alla crisi yemenita un rating A con outlook negativo. Previsione che alla luce del congelamento del conflitto si è realizzata, registrando solo episodici episodi di escalation. I ribelli Houthi continuano a tenere saldamente i territori controllati, e tutto lascia prevedere il consolidamento di questa realtà. Se ciò si verificherà effettivamente, potremo assistere all’avvio di un processo negoziale che gli attori esterni più coinvolti, e ci riferiamo all’Iran e all’Arabia Saudita, potrebbero essere finalmente pronti a sostenere. Sarà comunque difficile che si giunga ad una risoluzione definitiva del conflitto yemenita già il prossimo anno, ma con buona probabilità potrebbe il prossimo potrebbe essere l’anno giusto per gettarne le basi. Prospettiva che in ogni caso dipenderà in maniera condizionante dalle turbolenze che attraverseranno sicuramente l’Iran, nel corso del prossimo anno. Ma attenzione anche alle improbabili, ma non impossibili, turbolenze che potrebbero attraversare la famiglia reale saudita in un momento di transizione dei poteri particolarmente delicata, su cui incombe la malcelata ostilità dell’attuale amministrazione statunitense. Alla luce di questo apparente processo di de-escalation, confermiamo alla crisi yemenita un rating A con outlook negativo, per certi versi prossimo al livello B.

LIBIA

Lo scorso anno abbiamo assegnato alla crisi libica un rating B con outlook positivo. Previsione smentita da una realtà che, pur rimanendo turbolenta, non ha innescato la più volte paventata ripresa delle ostilità tra i due “governi” che si contendono il controllo sulle ricche macerie del paese governato dal colonnello Muammar Gheddafi. Questa calma apparente, potrebbe conservarsi, soprattutto alla luce della distensione delle relazioni bilaterali tra la Turchia e l’Egitto, i due sponsor principali delle due fazioni libiche contrapposte. Calma che potrebbe garantire la replica di un anno simile a quello che si appresta a concludersi, ma che difficilmente culminerà in un vero e proprio accordo di pace, giacché nessuna delle due parti sembra seriamente intenzionata, o anche solo preparata, a confrontarsi sul piano politico, coltivando l’ambizione di poter soverchiare l’altra parte, pur continuando a temere di essere sopraffatti da un gioco in le armi non sono più ammesse a tavolo. Troppe sono le armi che continuano a girare oggi in Libia, e fintanto che continueranno a girare la situazione rimarrà quella che è, con due forze che si equivalgono in forza e che non danno segno di fidarsi reciprocamente, almeno non fino in fondo, e soprattutto non adesso. Si parla dunque, via intermediari, certo, ma è sempre meglio che a spararsi addosso. Per tali ragioni assegniamo alla crisi libica un rating B con outlook negativo.

ISRAELE

L’anno scorso abbiamo assegnato a Israele un rating B con outlook positivo. Una previsione che non ha faticato a realizzarsi in una realtà che ha visto Israele e le milizie palestinesi di Gaza duellare a suon di razzi e raid. Ostilità a cui, purtroppo, il mondo sembra essersi abituato ad assistere senza riuscire a trovare la soluzione ad un conflitto decennale, ancora molto lontano dall’essere risolto, almeno fintanto che si continuerà a rilanciare le solite formule politiche prive di significato realistico. Conflitto abbandonato a se stesso che funge da sfondo alla prospettiva di un altro localizzato sul versante nord, con le milizie Hezbollah del Libano, fino ad oggi congelato. Ostilità di confine che verosimilmente rimarranno congelate, almeno fino a quando Israele non deciderà di attaccare l’Iran, precludendogli lo sviluppo del suo programma nucleare. Uno scenario che rischia di concretizzarsi anno dopo anno, soprattutto ora che Teheran è svincolata dagli accordi JCPOA ripudiati dall’amministrazione Trump. Se questo proposito si realizzerà, Israele rischierà di affrontare l’inevitabile rappresaglia missilistica dell’Iran, e dei suoi alleati regionali, non meno dotati in termini balistici. Tra l’altro, considerando questo scenario, non si può escludere la remotissima possibilità che i tecnici di Teheran abbiano in qualche modo bruciato le tappe del proprio programma nucleare, sviluppando ordigni nucleari che potrebbero imbarcare sui loro collaudati missili a raggio intermedio. Scenario talmente remoto che, è bene ribadirlo, andrebbe classificato nella categoria fantapolitica, ma che è bene considerare semplicemente perché non vi è certezza di cosa possa svilupparsi laddove l’AIEA non riesce a vigilare, e nel caso di Israele questi presupposti hanno portato allo sviluppo del suo programma nucleare. Ritornando ad un livello più realistico, se da una parte Israele spinge per attaccare l’Iran, l’attuale amministrazione statunitense guidata da Joe Biden sembra frenare, confidando di poter riuscire a convincere Teheran a ripristinare gli accordi sul nucleare, utilizzando ogni mezzo idoneo a metterli sotto pressione internazionale. La Casa Bianca sembra provarci, ma il rischio di un escalation tra Israele e Iran rimane più alta che mai. Ecco perché assegniamo ad Israele un rating B con outlook positivo.

TURCHIA

L’anno scorso abbiamo assegnato alla Turchia un rating B con outlook positivo. Previsione smentita da una situazione rimasta sostanzialmente invariata. La Turchia ha retto all’assedio finanziario, conservando il conflittuale rapporto con gli Stati Uniti, alleato Nato ritenuto fin troppo contiguo alla sfera curda, soprattutto in Siria, dove coopera attivamente con i gruppi legati a doppio filo all’organizzazione terroristica PKK. Per il presidente turco Erdogan le ambizioni secessioniste curde continuano a costituire la principale minaccia all’integrità del Turchia e ai suoi piani di proiezione strategica regionale. Dal canto loro, gli Stati Uniti si fidano sempre meno di Erdogan, soprattutto alla luce della sua risoluta scelta di non rinunciare al sistema antiaereo russo S-400. Questa sfiducia reciproca è alla base del rapporto speciale che Erdogan ha costruito con il presidente russo Putin, sebbene i due leader perseguano obiettivi strategici diversi in Siria, Libia, Armenia e Ucraina. Con buona probabilità, Turchia e Russia conserveranno questa loro relazione speciale, soprattutto in prospettiva delle elezioni presidenziali previste per il prossimo anno. Erdogan punta alla riconferma, ma è ben consapevole che una sua vittoria elettorale verrà fortemente ostracizzata dai propri alleati Nato, che difficilmente si lascerebbero sfuggire l’occasione di supportare la riproposizione di eventuali turbolenze di piazza per liberarsi di un personaggio scomodo e ingombrante. Basti considerare che l’adesione di Svezia e Finlandia alla Nato è attualmente subordinata al nulla osta di Ankara, che in cambio chiede ai due paesi scandinavi l’abbandono del tradizionale indirizzo politico pro-curdo. Tuttavia, verosimilmente, ad un certo punto, Erdogan toglierà comunque il veto all’allargamento Nato, ma non prima di aver ottenuto una più che congrua contropartita. E del resto, Erdogan è un politico scaltro, spregiudicato e imprevedibile, che alle giuste condizioni è disposto a riconsiderare ogni ipotesi. Lo sanno in occidente, così come lo sanno altrettanto bene a Mosca. I russi, dal canto loro, confidano che, dinnanzi al fallimento dell’azzardo siriano, Erdogan possa promuovere una ricomposizione politica della crisi in Siria, restaurando l’antica intesa con Bashar Assad, confidando possa contribuire a disinnescare le istanze indipendentiste della locale minoranza curda. Scenario che se non si realizzerà vedrà la Turchia prendere l’iniziativa militare, attaccando le milizie curde attualmente sostenute dagli Stati Uniti, estendendo l’occupazione dei territori siriani. Ma alla luce degli sviluppi in Ucraina, l’imprevedibile Erdogan potrebbe anche ribaltare la situazione, sfruttando la debolezza di Mosca, impegnata in un conflitto che limita le risorse da impiegare altrove, a cominciare dalla Siria. Ecco perché, sebbene Erdogan consideri la necessità di abbandonare i ribelli islamisti di Idlib, agevolando la costituzione di una formazione politica ribelle in grado di riconciliarsi con le autorità di Damasco, potrebbe anche valutare improbabili e altamente rischiosi colpi di coda nel conflitto siriano. Ad oggi, tuttavia, lo scaltro Edogan sembra sfruttare l’indebolimento russo, più o meno voluto dalle priorità strategiche di Mosca, per agevolare la situazione strategica dei propri alleati azeri in conflitto con un’Armenia sempre più in difficoltà. Più sfumata sembra essere invece il coinvolgimento turco nel conflitto in Ucraina, dove il numero di droni turchi forniti a Kyev si è assottigliato parecchio dall’inizio delle ostilità. La Turchia sostiene l’Ucraina, ma sta riuscendo a farlo nel modo più discreto e costruttivo possibile, tanto da accreditarsi tra le due controparti come attore mediatore. Il ridimensionamento del coinvolgimento militare turco nel conflitto in Ucraina trova spiegazioni anche dalla necessità di dover mantenere un livello di risorse militari adeguate a fronteggiare ogni possibile evenienza, soprattutto alla luce della crescente rilevanza dell’insidia curda in casa, Siria e Iraq. Non meno rilevante è anche la prospettiva di un conflitto nel mediterraneo con la Grecia o con Cipro. Alla luce di queste considerazioni confermiamo alla situazione turca un rating B con outlook positivo.

LIBANO

Lo scorso anno abbiamo assegnato al Libano un rating B con outlook positivo. E sebbene la situazione non sia precipitata, configurando gli scenari peggiori, il paese dei cedri si ritrova comunque alle prese con una complicatissima situazione finanziaria. Difficoltà che ad un certo punto potrebbero far esplodere il settarismo, riproponendo scenari da guerra civile. Ma ciò che rende particolarmente centrale il Libano è il potenziale militare strutturato da Hezbollah, il cui arsenale missilistico, di derivazione iraniana, costituisce una minaccia prioritaria per Israele. Minaccia che a Tel Aviv preferirebbero ingaggiare indirettamente, occupando l’organizzazione sciita in un nuova guerra civile libanese. Ma per quanto le tensioni rimangano alte, Israele e Libano, concordando le demarcazioni delle rispettive acque territoriali, hanno recentemente manifestato la volontà di rapportarsi in maniera pragmatica, astenendosi dal predisporre iniziative reciprocamente aggressive. Di certo, l’eventualità di un scontro tra Hezbollah e Israele rimane legata agli sviluppi delle relazioni israelo-iraniane, giacché uno scontro tra i due paesi avrebbe inevitabilmente ripercussioni al confine con in Libano. Per questi motivi confermiamo al Libano un rating B con outlook positivo.

VENEZUELA

L’anno scorso abbiamo assegnato al Venezuela un rating B con outlook negativo. Previsione confermata dallo scongelamento delle relazioni in atto tra i paesi occidentali ed il governo presieduto da Nicolas Maduro. A conferma di questo processo di revisione politica ci sta l’incontro tra Maduro e il presidente francese Macron, che nei fatti disconosce il presidente golpista Juan Guaidò. Anche gli stessi Stati Uniti, come previsto nella nostra previsione dell’anno scorso, stanno revisionando le loro relazioni con il Venezuela, permettendo alle loro multinazionali di riprendere le relazioni commerciali con il paese detentore delle principali riserve di petrolio greggio globale. Il prossimo anno sarà un anno fondamentale per il governo bolivariano presieduto da Maduro, che complice il rialzo generalizzato del prezzo del petrolio, avrà modo di acquisire importantissime risorse finanziarie per puntellare la propria base di potere, inducendo l’opposizione a riaprire seriamente i tavoli negoziali. Alla luce di queste ragioni assegniamo al Venezuela un rating C con outlook positivo.

ARABIA SAUDITA

L’anno scorso abbiamo assegnato all’Arabia Saudita un rating B con outlook positivo, preventivando tutta una serie di fermenti che ad oggi non si sono verificati. Ciononostante, alla luce della veneranda età di Re Salman al-Saud, le incognite della transizione dei poteri non possono che crescere, sebbene il giovane figlio Mohammed puntelli la propria posizione di principe ereditario giorno dopo giorno, esercitando un controllo pressoché assoluto sulla monarchia saudita. Mohammed bin Salman continua ad essere malvisto dall’amministrazione statunitense, che ne ha degradato fortemente l’immagine, associandolo allo scandalo dell’assassinio del caso Kashoggi. Agli occhi dell’amministrazione Biden, il principe ereditario sconta anche un’eccessiva contiguità rispetto alla Cina, e soprattutto della Russia di Putin, le cui convergenze sono ben evidenti in ambito OPEC+. L’anno che si appresta a concludersi ha confermato la nostra previsione relativa allo scongelamento delle relazioni tra Arabia Saudita e Qatar, complice il mondiale di calcio recentemente conclusosi. Rimane, invece, tutto da considerare l’impegno dei sauditi in Yemen, dove le ostilità sono congelate, ma ancora lontane dall’essere definitivamente disinnescate. Prospettiva che dipende essenzialmente dalle gelide relazioni arabo-iraniane. Riyadh, dal canto suo, auspica il ripristino degli accordi sul nucleare, avendo ventilato in più occasioni che all’ipotesi di un Iran nucleare sarebbe inevitabilmente seguita quella di un Arabia Saudita nucleare. Se l’Iran non sottoscriverà un nuovo accordo sul nucleare, il prossimo anno la regione mediorientale rischia di scivolare in una spirale di caos da cui difficilmente l’Arabia Saudita potrà sottrarsi, soprattutto alla luce dei reiterati attacchi che i ribelli yemeniti sono riusciti a portare a segno nel corso degli anni operando droni e missili di derivazione iraniana. Un’eventuale scontro su larga scala con l’Iran esporrebbe i poli petroliferi sauditi ad una serie di attacchi che farebbero implodere l’economia del regno, e a cascata quella mondiale, soprattutto nel caso di un possibile blocco dello stretto di Hormuz, da dove transita la gran parte delle petroliere in uscita dal golfo persico. Per queste ragioni confermiamo all’Arabia Saudita un rating B con outlook positivo.

IRAQ

L’anno scorso abbiamo assegnato all’Iraq un rating B con outlook positivo. Previsione confermata dai fermenti politici che hanno attraversato le strade della capitale irachena, soprattutto da parte dei sostenitori del leader nazionalista scita Moqtada al-Sadr, uscito vittorioso da un’elezione contestata dai suoi concorrenti, usciti ridimensionati dal processo elettorale. Le forze sciite sono maggioranza assoluta in Iraq, ma le differenze tra queste rimangono profonde, dividendo il fronte sciita tra formazioni apertamente filo-iraniane e formazioni più nazionaliste. Senza più la carismatica mediatrice di Qasem Soleimani, l’Iran fatica a tenere insieme i suoi alleati iracheni, alcuni dei quali sono pronti ad andare incontro ad una guerra civile pur di non sottostare agli altri. Nel frattempo, la risoluzione del parlamento di Baghdad di espellere le forze straniere dal paese è rimasta un mero proposito politico. L’Iraq di oggi è sempre di più terra di nessuno. Gli americani ci sono, ma non vanno via, gli iraniani dominano, ma controllano sempre meno il governo. Tra i principali rischi per la situazione irachena, c’è la non così remota possibilità che gli Stati Uniti agevolino la destabilizzazione dell’Iraq, per mettere sotto pressione l’Iran, costringendolo a sottoscrivere un nuovo accordo sul nucleare. Non meno complicata è la situazione nella regione del Kurdistan, dove l’élite del PDK fronteggia tensioni non meno rilevanti. E proprio il Kurdistan rischia di diventare un problema urgente per Baghdad, alle prese con le ricorrenti contestazioni di Iran e Turchia, che chiedono di vigilare sui confini, dove l’attivismo delle milizie curde inizia a diventare più che problematico. Insidie a cui l’Iran ha già risposto autonomamente, lanciando raid missilistici contro campi di addestramento delle milizie curde ribelli situate proprio nella regione del Kurdistan iracheno. Iniziative a cui l’Iran, con a rimorchio la Turchia, hanno minacciato di porre fine minacciando di intervenire con i rispettivi eserciti. Per questi motivi assegniamo all’Iraq un rating B con outlook positivo.

COREA

L’anno scorso abbiamo assegnato alla Corea del Nord un rating B con outlook positivo. Previsione che ha trovato conferma nella ripresa dei test balistici a lungo raggio, che il governo di Pyongyang aveva sospeso, assecondando tacitamente l’amministrazione statunitense a guida Trump. Come avevamo previsto, i nordcoreani stanno provando a catalizzare l’attenzione della nuova amministrazione Biden nel tentativo di impegnarla al tavolo negoziale aperto dall’ex-presidente Trump. Presupposti che potrebbero spingere Pyongyang a forzare la mano, effettuando un nuovo test nucleare. Di certo, la nuova amministrazione sudcoreana non lascia presagire la ripresa del dialogo tra Seul e Pyongyang. Ma per quanto complicato, è improbabile che il degrado del rapporto politico tra le die coree possa scatenare un conflitto su ampia scala. Sia chiaro, la riproposizione di un conflitto su larga scala in Corea rappresenta una eventualità concreta, ma se ciò avverrà dipenderà in buona sostanza dal degrado dell’equilibrio strategico nella regione pacifica, e ciò dipende fondamentalmente dall’indirizzo strategico cinese. Se la Cina verrà ingaggiata in maniera più assertiva dai suoi avversari strategici, più che a Taiwan, potrebbe decidere di rispondere in maniera indiretta proprio in Corea. Alla luce di queste incognite, non possiamo che confermare un rating B con outlook positivo.

IRAN

L’anno scorso abbiamo assegnato all’Iran un rating B con outlook positivo. Previsione confermata da una realtà che vede l’Iran sottoposto ad una fortissima pressione interna, amplificata dai mass-media occidentali. Al contrario del suo predecessore, il presidente statunitense Joe Biden sembra intenzionato a ripristinare gli accordi che regolavano lo sviluppo il programma nucleare. Il raggiungimento di una nuova intesa nucleare, per quanto possibile, è pregiudicato da una realtà diversa da quella che ha visto sottoscrivere il JCPOA. Innanzitutto, l’attuale governo iraniano è guidato da un esponente della fazione conservatrice, che solo due anni fa ha accusato l’assassinio del generale Qassem Soleimani proprio per mano americana. Atto terroristico che oggi può essere letto come uno stratagemma finalizzato a scavare un solco larghissimo tra chi in futuro avrebbe provato a riproporre una nuova intesa nucleare. Da questo punto di vista, Trump è stato il miglior alleato di Israele, ma se si considera che da allora il programma nucleare iraniano progredisce senza alcuna vigilanza internazionale, si potrebbe paradossalmente pensare anche il contrario. Quale delle due letture sia giusta non lo sa nessuno, ma di certo il tempo darà le sue risposte. Un altro elemento che condiziona negativamente la prospettiva di un nuovo accordo sul nucleare è il degrado della credibilità di qualsiasi accordo firmato da governi che non tengono fede a quanto sottoscritto, e ciò vale soprattutto per gli Stati Uniti, ma anche per i governi europei, incapaci di garantire il principio fondamentale del “pacta sunt servanda”. Il mondo di oggi è un mondo anarchico, in cui America ed Europa non sentono più la necessità di rispettare i patti. Trend confermato dagli sviluppi registrati in Ucraina, dove gli accordi di Minsk sono stati disattesi dalle parti garanti, che in alcuni casi non hanno nascosto il proposito di ingannare la controparte per prendere tempo, anziché risolvere le questioni che lo richiedevano. Dunque, a leggere questo contesto, non si fatica a capire il perché tutto sembra lavorare contro il raggiungimento di una nuova intesa sul nucleare, soprattutto se in questa si richiede di inserire clausole inerenti lo sviluppo della tecnologia balistica, che l’Iran considera rientranti all’interno delle sfere di pertinenza strategica non negoziabili, in quanto parte della propria politica di difesa. Il tempo trascorre inesorabile, e gli Stati Uniti temono che questo tempo possa accorciare le tempistiche tecniche che potrebbero permettere, in via teorica, all’Iran di sviluppare tecnologia nucleare militare. Non riuscire ad imbrigliare nuovamente il programma nucleare iraniano implicherebbe sviluppi regionali disastrosi, come una possibile iniziativa autonoma israeliana contro i siti nucleari iraniani, che gli Stati Uniti al momento sembrano voler evitare. Ecco perché a Washington stanno incrementando la pressione su Teheran, sostenendo apertamente le mobilitazioni antigovernative, che avevamo previsto nella previsione dello scorso anno. Le proteste che scuotono l’ordine interno iraniano, sono state geograficamente generalizzate, ma non generali, poiché hanno prevedibilmente trovato particolare vigore nelle regioni abitate dalla minoranza curda, stretta alleata regionale di Washington nel vicino Iraq, e soprattutto in Siria, dove occupano illegalmente l’est del paese. Al momento, le manifestazioni in Iran, al netto dei moventi politici che li animano, sembrano configurarsi più come il tentativo di pressare il governo di Teheran a negoziare, giacchè in caso contrario le proteste avrebbero preso una piega più militare, con molte più armi in circolazione, che si sono già intraviste, ma non nel quantitativo necessario a creare lo scenario che si è visto in Libia o Siria. Dunque, al momento perlomeno, si negozia, in un modo complesso, contradditorio e mediatico, ma si negozia per trovare una soluzione che tutti avrebbero interesse a trovare, a meno che a Teheran si sia fatta largo l’idea di non potersi fidare nuovamente di Washington, decidendo di emulare la strategia nucleare della Corea del Nord, anche a costo di rischiare un confronto militare diretto con gli Stati Uniti, Israele ed i paesi della regione del golfo persico. Probabilmente tenendo in considerazione che delle difficoltà americane nel sostenere un conflitto più complicato di quello iracheno ed afghano parallelamente a quello che indirettamente sta combattendo in Ucraina contro la Russia. Tuttavia, razionalmente, tutto suggerisce la necessità di trovare un nuovo accordo che, semmai verrà mai raggiunto, verrà condizionato da una crescente pressione internazionale sul governo iraniano. Pressione che si manifesterà innanzitutto sul versante dell’ordine interno, ma che potrebbe anche turbare la sfera estera, soprattutto in Iraq, dove il fronte politico sciita è più diviso che mai. E sempre tenendo in considerazione il quadrante iracheno, va seriamente considerata la possibilità che l’Iran faccia pagare un prezzo sempre maggiore ai curdi del Kurdistan iracheno, ritenendo Erbil responsabile del crescente attivismo della minoranza curda iraniana all’interno dei propri confini. Ultimo appunto va fatto ai rapporti tra Iran e Azerbaijan, paese alleato della Turchia, ma anche di Israele, contro cui Teheran potrebbe esercitare quel peso strategico che la Russia non è nelle condizioni di esercitare in Armenia. Per tutte queste ragioni assegniamo all’Iran un rating B con outlook positivo.

INDIA-PAKISTAN

L’anno scorso abbiamo assegnato alla regione indo-pakistana un rating C con outlook positivo, temendo che parallelamente all’antico conflitto nel Kashmir si esasperassero le tensioni con la Cina. Questa nostra previsione è stata smentita dalla realtà, anche se non troppo, come dimostrano le recenti schermaglie montane tra i due eserciti armati, almeno per ora, di soli bastoni. Due potenze nucleari responsabili consapevoli della previsione di Albert Einstein, secondo cui un’ipotetica quarta guerra mondiale si sarebbe combattuta con bastoni e pietre per effetto dell’uso indiscriminato delle armi nucleari in una ipotetica terza guerra mondiale. E del resto, le regole d’ingaggio “prudenti” ricordano ad entrambi i contendenti che la posta in gioco rimane pur sempre qualche valle scoscesa sprovvista di infrastrutture basilari. Di certo, l’accrescimento del valore strategico del quadrante asiatico sta mettendo sempre più in evidenza il valore geopolitico dell’India, che sebbene corteggiata dagli Stati Uniti in funzione anti-cinese, al momento sembra continuare a conservare la propria indipendenza strategica, come dimostra anche l’intenzione di conservare le relazioni privilegiate con la Russia, soprattutto in ambito militare, ma anche energetico. Turbolenze, non meno influenzata dall’esterno, attraversano il Pakistan, soprattutto dopo il recente e controverso cambio di governo. Tensioni che potrebbero destabilizzare il clima interno pakistano nel corso del prossimo anno, mettendo a dura prova le capacità delle forze armate nel garantire l’equilibrio politico che un paese dotato di armi nucleari necessita. In ogni caso, sul piano strategico, questo mutamento politico rischia di pregiudicare, o quantomeno limitare, la partnership strategica tra Islamabad e Pechino. Gli sviluppi che deriveranno da questa regione nel corso del prossimo anno potrebbero essere particolarmente rilevanti, ragion per cui confermiamo un rating C con outlook positivo.

CINA

L’anno scorso abbiamo assegnato alla Cina un rating C con outlook positivo. Previsione smentita dalla realtà, dal momento che al netto delle esercitazioni a ridosso dell’isola di Taiwan, non si è concretizzata la temuta invasione di quella che Pechino, e non solo, considera territorio indivisibile della Repubblica Popolare di Cina. Infatti, per quanto si parli alla leggera dello status di Taiwan, la realtà diplomatica è ben più controversa di quello che i media raccontano all’opinione pubblica. E se un po’ a tutti conviene conservare l’attuale status quo, in occidente si fa sempre più difficile continuare a conciliare il principio di una sola Cina con la realtà di un paese sostanzialmente indipendente che Washington ha più volte ribadito non esiterebbe a difendere in caso di conflitto. Dinnanzi alla crisi ucraina, gli Stati Uniti si stanno preparando ad armare pesantemente anche Taiwan, prima che Pechino completi il processo di potenziamento delle proprie forze armate. E proprio, la programmata fornitura di armi americane rischia di esasperare il clima nella regione, dove la Cina ha più volte evidenziato le proprie capacità navali e aeree. La destabilizzazione di Taiwan rappresenterebbe un punto di non ritorno per le economie mondiali, dal momento che l’isola è uno dei principali produttori di semiconduttori di cui i mercati globali dipendono in maniera sempre più essenziale. Detto questo, l’economia cinese tiene, anche se accusa i pesanti limiti che la politica zero Covid imposta dal governo. L’economia è infatti il migliore filtro per leggere le intenzioni cinesi, e più questa rimarrà solida, maggiori saranno le possibilità che la situazione strategica della regione del Pacifici rimanga stabile. Pertanto, fintanto che l’economia cinese crescerà, il governo di Pechino non avrà interesse ad ingaggiare un conflitto per Taiwan. Economia fondamentale per Pechino, dal momento che tiene occupata una popolazione immensa, difficile da gestire, e che ha già dato segnale di non tollerare i rigidi lock down, dando luogo a manifestazioni che in futuro potrebbero prestarsi a strumentalizzazioni da parte di chi ne ha interesse, soprattutto tra gli avversari strategici della Cina. Tuttavia, nel caso in cui il più volte evocato processo di decoupling si presentasse a breve, si dovrebbe mettere in conto un cambio di paradigma strategico da parte cinese, a cominciare dalla questione Taiwan. In ogni caso, l’iniziativa russa in Ucraina ci ricorda che, per quanto possono essere rilevanti, nessun interesse economico surclassa quello strategico di una potenza nucleare, soprattutto quando ad essere insidiata è la propria sicurezza più prossima. La situazione di Taiwan è diversa da quella Ucraina, ma la visione che Pechino ha di Taiwan in realtà, oltre il linguaggio diplomatico, non è poi così diversa da quella che prevale a Mosca, e ad un certo punto il mondo potrebbe ritrovarsi a farci i conti, anche se da parte cinese si conta di riuscire ad esercitare un’influenza politico-economica idonea a raggiungere una soluzione più politica che militare. La crisi ucraina ha evidenziato una discrepanza diplomatica tra Cina e Russia proprio per via della questione Taiwan, ma i due paesi sono ben lontani dal rinunciare alla loro partner strategica, anche se questa sembra fondata più dalla paura del nemico comune americano che da una reale convergenza di interessi, che in Asia centrale trovano più di un motivo di conflitto. Ma evidentemente, il nemico comune è molto più grande delle rispettive ambizioni regionali. Ad ogni modo, sarà interessante constatare che ruolo manterrà la Cina nei confronti della Russia, alle prese con l’anno più difficile della caduta dell’URSS. Rapporto strategico che al momento sembra reggere, come dimostrano i crescenti legami commerciali, dove la sfera energetica acquisisce una rilevanza che a breve potrebbe sostituire la consistenza del mercato europeo. Da non sottovalutare anche il quadrante del Mar cinese meridionale, dove il rischio di incidenti è più alto che altrove. Ultima riflessione merita la questione coreana, la cui incognita rappresenta il principale onere strategico di Pechino. Per queste ragioni confermiamo alla Cina un rating C con outlook positivo.

EUROPA

L’anno scorso abbiamo assegnato all’Europa un rating C con outlook positivo. Previsione confermata dagli eventi che si sono verificati, configurando quel conflitto con la Russia (ipotizzato nel focus dell’anno scorso), che almeno per il momento, i paesi UE stanno combattendo indirettamente armando l’Ucraina. La questione Nordstream 2 non solo si è riproposta come previsto, ma è stata addirittura archiviata dalla “misteriosa e ignota” (…) esplosione del gasdotto che collegava la Russia alla locomotiva industriale tedesca. Incredibilmente, superata a malapena la disastrosa pandemia Covid, l’élite europea non è riuscita a prendere l’iniziativa per bloccare una potenziale catastrofe continentale. Incapaci di negoziare un accordo di sicurezza continentale che garantisse tutti i paesi che vivono all’interno del vecchio continente, la classe dirigente europea ha deciso di ingaggiare quel conflitto che per quasi un secolo i loro predecessori si sino fattivamente impegnati ad evitare ad ogni costo, gestendo con razionalità anche le fasi peggiori della guerra fredda. L’UE ha definitivamente ceduto il passo alla Nato, assecondando i piani di chi controlla nella sostanza questa alleanza, che allargandosi fino ai confini del suo nemico strategico, non aggiunge più sicurezza, ma incognite e costi esorbitanti ai paesi membri. E mentre la guerra torna a disintegrare l’est-Europa, a ovest si inizia a valutare il rapido assottigliamento degli arsenali svuotati per tenere in armi un paese spinto verso la disintegrazione, e che ad un certo punto o si abbandonerà o si dovrà assistere direttamente, con tutto quello che ciò comporta. E se questo scenario rimane al momento un’ipotesi suggestiva, il tracollo dell’economia continentale nel corso del prossimo anno sembra più una certezza derivante dalle crescenti difficoltà nell’approvvigionarsi dell’energia necessaria a mantenere i livelli di prosperità a cui i popoli europei sono stati abituati nel corso degli ultimi decenni. Si, perché parallelamente alla disintegrazione della storica partnership energetica con la Russia, a Bruxelles non si è trovato di meglio che inimicarsi il Qatar, il principale paese produttore di Gnl, di cui l’Europa ha un bisogno essenziale. La prospettiva di un degrado generalizzato delle condizioni di vita rischia di annientare il ceto medio, livellandolo verso i sempre più consistenti strati più poveri della società, innescando tutta una serie di dinamiche socio-economiche capaci di mettere in discussione l’ordine politico del continente intero. Ecco perché assegniamo all’Europa un rating B con outlook positivo, che a seconda degli sviluppi potrebbe persino configurare un livello A.

STATI UNITI

L’anno scorso abbiamo assegnato agli Stati Uniti un rating C con outlook positivo. Previsione che per certi versi non è stata confermata, ma per altri si, soprattutto alla luce di quello che sta succedendo in Ucraina, dove il coinvolgimento americano, pur se indiretto, è ben evidente. Gli Stati Uniti sembrano aver scansato lo scenario di guerra civile conseguente alle elezioni perse e contestate dall’ex-presidente Donald Trump, che sebbene prossimo alla ricandidatura, adesso rischio l’incriminazione. L’elezione di Joe Biden ha ripristinato la coerenza sistemica del sistema di potere statunitense che quattro anni di presidenza Trump avevano messo a dura prova. La situazione interna è dunque rientrata, ma le problematiche di cui Trump si è fatto portavoce rimangono una questione attuale, tutt’altro che archiviata. La frattura politica che attraversa gli Stati Uniti è lontana dall’essere ricomposta, e separa l’attuale élite trasversale ai due principali partiti da quella America profonda, dimenticata, snobbata e in certi casi persino perseguitata. Contrapposizione recentemente evidenziata dall’acquisto di Twitter da parte del multimiliardario Elon Musk, che dietro la sua scaltra strategia commerciale, sembra voler provare a scardinare l’impalcatura digitale di cui si è avvalso l’establishment neo-liberale per polarizzare l’opinione pubblica verso una direzione che chiunque dotato di un minimo di acume non fatica a comprendere. Per comprendere la rilevanza del processo in atto, basti considerare la riabilitazione dell’account dell’ex-presidente Donald Trump, bloccato, e quindi censurato, durante il suo mandato, per mere motivazioni di ordine politico. In America si sta delineando una lotta tra due concezioni di libertà: quella assoluta e quella di una minoranza che impone in maniera sempre più totalizzante gli standard di confronto socio-politico. Una lotta potenzialmente letale, che già il prossimo anno inizierà a fermentare con l’avvicinarsi della campagna elettorale più incerta e determinante della storia degli Stati Uniti. Parallelamente ai delicatissimi equilibri interni, gli Stati Uniti si ritrovano a coordinare una guerra per procura in Europa contro la Russia, che ad un certo punto potrebbe degenerare in un conflitto su larga scala che potrebbe far detonare l’intero ordine globale, mettendo a repentaglio persino la sicurezza dello stesso paese. Non si tratta più di provocare, attaccare e distruggere un paese indifeso come la Libia o l’Iraq, in Russia il rischio di innescare un conflitto nucleare, che per quanto remoto, rimane una prospettiva decisamente concreta. Se ad un certo punto, le armi da fornire all’Ucraina si rivelassero insufficienti, o se la portata dello scontro superasse la soglia di sopportabilità di Kiev, su Washington incomberebbe la difficile scelta di abbandonarla al suo destino o decidere di entrare direttamente nel conflitto, con tutto quello che ciò comporta. Con buona probabilità, a Washington puntano ad indebolire la Russia per potersi concentrare in futuro sulla Cina, ma questa scommessa va considerata per quella che è: una scommessa per l’appunto, che gli Stati Uniti stanno giocando sulla pelle degli alleati europei. E mentre questo azzardo strategico inizia a palesare i notevoli rischi, mentre Russia e USA si affrontano, in Asia la Cina continua a rafforzare il proprio potenziale, traendo vantaggio dalla riproposizione di una stupida guerra fredda fuori tempo massimo, che drenerà importanti risorse ad entrambi i fronti. Oggi gli Stati Uniti confidano di poter controllare un conflitto indiretto con la Russia, ma l’eventualità di un improvviso conflitto a Taiwan o in Corea configurerebbe un disastro strategico a cui difficilmente potrebbero porre rimedio. E ciò senza considerare la partita mediorientale, dove giocando la carta della destabilizzazione interna, gli Stati Uniti contano di convincere l’Iran a sottoscrivere un nuovo accordo sul nucleare, che se disatteso costringerebbe gli Stati Uniti ad affrontare l’onda caotica che un eventuale intervento militare israeliano contro i siti nucleari iraniani scatenerebbe nella regione. Troppi fronti, troppe insidie, ecco l’anno che si presenta dinnanzi agli Stati Uniti, alle prese con una giocata all-in per difendere il proprio status di superpotenza globale egemone. Alla luce di queste considerazioni assegniamo un rating B con outlook positivo.

REPUBBLICHE CENTROASIATICHE

L’anno scorso abbiamo assegnato alla regione centroasiatica un rating B con outlook positivo. Previsione che, al netto della situazione in Afghanistan, dove i talebani hanno ripreso il potere insidiati dall’Isis, abbiamo azzeccato prevedendo la destabilizzazione di paesi come il Tajikistan e Kirghizistan, due ex-repubbliche sovietiche su cui Mosca fatica a mantenere la tradizionale influenza strategica, sempre più insidiata dall’espansionismo cinese. Conflitti che potrebbero esasperarsi nel corso del prossimo anno, così come la situazione in Kazakistan, dove la Russia è già intervenuta per puntellare l’ordine interno di un paese alle prese con una difficile transizione politica, che potrebbe riservare ulteriori sorprese anche nel prossimo anno, mettendo ulteriormente in difficoltà la situazione di Mosca. Per queste ragioni assegniamo un rating B con outlook positivo.