Generale

RATING GEOPOLITICO PER IL 2019

Cosa dovremmo aspettarci dal prossimo anno? Quali rischi incombono sullo scacchiere internazionale? Scopriamolo insieme.

Prima di addentrarci nella nostra analisi, volevamo porgere i nostri migliori auguri di buon Natale e di felice anno nuovo a tutti i nostri utenti e alle loro famiglie. Tu che leggi, sappi di essere considerato parte di Torcia Politica, un fratello con una torcia idealmente animata da una comune passione verso la politica, intesa come azione che nasce dalla conoscenza.
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Per noi ogni contatto è più che un numero, è una persona che apprezza il nostro umile lavoro, e a cui ci sentiamo legati pur senza conoscerla. A tal proposito, ne approfittiamo per ringraziare in modo particolare i nostri Followers su Twitter, che ci sostengono condividendo le nostre riflessioni, e con cui spesso abbiamo il piacere di scambiare opinioni in modo franco, rispettoso e in spirito di amicizia. Il nostro proposito per il 2019 è quello di crescere, ecco perché vi chiediamo di aiutarci a farlo condividendo le nostre analisi, perché se è vero che da questo blog ci guadagniamo zero, rimettendoci pure, è anche vero che lasciare un like o un retweet è un modo semplice ed economico con cui gratificarci, allontanando l’idea che l’impegno profuso sia stato tempo perso.

RATING DI RISCHIO GLOBALE

Entrando nel merito dell’articolo, prima di concludere l’anno avevamo ipotizzato un riepilogo egli eventi salienti di questo 2018, ma alla fine abbiamo ritenuto molto più stimolante provare ad avanzare alcune previsioni su quelli che riteniamo saranno gli scenari internazionali più “caldi” del prossimo 2019. Così abbiamo tentato di applicare la logica del “rating finanziario” alla geopolitica, cimentandoci nell’elaborazione di una sorta di “rating geopolitico” finalizzato alla valutazione del grado di rischio dei paesi più soggetti a fonti di instabilità politica e militare. La nostra analisi prevede 3 classi di rischio (A, B, C), integrate dal loro grado di esposizione a fattori degradanti (outlook positivo) o a fattori stabilizzanti (outlook negativo).
Tra i paesi con classe di rating A abbiamo incluso paesi in cui è in corso un conflitto, mentre tra i paesi con classe di rating B abbiamo incluso quelli con crisi politiche particolarmente esposte al rischio di un escalation militare, infine nella classe di rating C abbiamo incluso quei paesi stabili ma potenzialmente esposti al rischio di instabilità politica.

PAESI CON CLASSE DI RISCHIO A

UCRAINA / RUSSIA:

L’Ucraina, come è noto, dal 2014 ha perso il controllo della Crimea e del Donbas. Al netto dei proclami del governo di Kiev, il paese non è nelle condizioni di riprendere il controllo della Crimea, divenuta un fortino inespugnabile della Russia, che la considera parte integrante della propria federazione. I margini di manovra sono relativamente più agevoli nel Donbas, dove Kiev potrebbe decidere di agire contro i ribelli delle repubbliche separatiste, azione che vanificherebbe gli accordi di Minsk, aprendo la strada ad un probabilissimo intervento russo, la cui portata potrebbe spaziare dal Donbas a tutta la regione costiera ucraina (abitata prevalentemente da russi), fino ad una completa invasione dell’Ucraina, con relativa conquista della capitale Kiev. Le recenti schermaglie navali in prossimità dello Stretto di Kerch in Crimea, sommate all’assassinio del leader dei ribelli del Donbas di qualche mese fa, lasciano trasparire la voglia di innescare una escalation da parte del governo ucraino, probabilmente convinto che la NATO o quantomeno gli USA accorrano in loro soccorso nel caso di una guerra diretta con la Russia, ipotesi che riteniamo improbabile, essendo assai più probabile un esito simile a quello della crisi in Georgia di qualche anno fa quando gli Stati Uniti abbandonarono al suo destino il governo di Tbilisi, proprio perché consapevoli dell’insostenibilità di un confronto con una potenza nucleare come la Russia, per giunta in una posizione notevolmente più debole di quella di oggi.

Dunque, difficilmente la Russia invaderà l’Ucraina, d’altronde, se questo fosse stato un suo obiettivo, lo avrebbe semplicemente già fatto come nel caso della Crimea. Pertanto, l’atteggiamento di Mosca è quello di chi vuole politicizzare la crisi, subordinandone la risoluzione alla rinuncia da parte di Kiev ai suoi propositi di adesione alla NATO. Ipotesi, questa, che lederebbe gravemente la sicurezza della Federazione Russa, dal momento che presupporrebbe il dislocamento di un esercito potenzialmente aggressivo ad una manciata di chilometri da Mosca. In Russia, dunque, prevale la volontà de-scalare il conflitto, mentre a Kiev dinnanzi ad una fallimentare situazione economica e politica interna, si tenta di proiettare verso l’esterno una situazione al dir poco insostenibile, anche a rischio di predisporre un casus-belli con cui sperano di ottenere un intervento americano nella crisi, che riteniamo altamente improbabile per via delle stesse ragioni che hanno decretato il precedente georgiano. Alla luce di queste considerazioni, assegniamo alla crisi tra Ucraina e Russia un rating A con outlook positivo.

SIRIA:

Negli ultimi mesi la crisi in Siria si è progressivamente stabilizzata, assegnando al governo baathista presieduto da Bashar al-Assad l’indiscutibile vittoria sulla rivolta islamista ed i suoi sponsor internazionali, piegati dal prorompente ritorno di Mosca sullo scacchiere globale. Dell’insurrezione del 2011 è rimasto un aggregato di milizie islamiste, più o meno integraliste, arroccate nei pressi della città di Idlib, dove tuttavia il fronte si è congelato per effetto dell’accordo raggiunto tra la Russia di Putin e la Turchia di Erdogan, e assecondato dall’Iran di Rohani. La Turchia ha ottenuto da Mosca una tregua, garantendo la smilitarizzazione delle milizie qaidiste, che tuttavia a distanza di mesi non sembra essersi effettivamente realizzata. Qualora Ankara non riuscisse a realizzare i suoi propositi, è probabile che la Russia riprenda mano alla soluzione militare, sostenendo l’offensiva finale che da mesi lo stato maggiore siriano attende di lanciare contro l’ultima roccaforte ribelle di Idlib. Nel caso in cui tale scenario si realizzasse, è altamente probabile il rischio di una ennesima “provocazione chimica”, che statisticamente precede i perniciosi tentativi americani di interferire nella risoluzione della crisi siriana, impedendo la sconfitta definitiva del fronte qaidista.

Russia e USA si trovano entrambe in Siria, dove tuttavia il rischio di un loro confronto rimane basso, ma comunque non impossibile, soprattutto nel caso in cui a Washington decidano forzare la mano colpendo le infrastrutture russe o predisponendo azioni concrete finalizzate all’assassinio del Presidente siriano Bashar al-Assad.
La situazione potrebbe poi riscaldarsi, ad est, poiché il dominio della minoranza curda spalleggiata dagli Stati Uniti è sempre meno tollerato tra le tribù arabe locali, che ad un certo punto potrebbe anche insorgere reclamando la reintegrazione nella Repubblica Araba di Siria. Ipotesi, che a quel punto, metterebbe Washington alle strette, ritrovandosi a fare i conti con degli alleati politicamente deboli e demograficamente inconsistenti, tutti elementi che difficilmente permetteranno a questa minoranza di continuare ad esercitare il loro dominio su di un territorio ben maggiore di quello gestito dai ben più numerosi curdi iracheni.

Sulla situazione curda incombe poi anche l’ombra della Turchia, che rivendica con forza il disarmo delle milizie curde addestrate da Washington, considerate emanazione dell’organizzazione terrorista marxista PKK. Il rischio che Erdogan estenda le proprie operazioni militari verso i territori controllati dai curdi ad est del fiume Eufrate cresce giorno dopo giorno, soprattutto adesso che l’amministrazione americana Trump ha annunciato la volontà di ritirarsi dalla Siria. Scelta che, se confermata, permetterebbe di risanare il rapporto strategico che tradizionalmente lega Washington ad Ankara, che non chiede altro che il disinnesco della questione curda. Se l’annuncio di Trump si concretizzasse, i curdi dovrebbero prendere atto dell’ennesimo storico tradimento occidentale, riconsiderando l’opportunità di aprire un negoziato con il governo di Damasco, sperando di ottenere una qualche forma di autonomia amministrativa. Negoziato che, in tal caso, dovrebbe articolarsi rapidamente, prima che la Turchia decida di approfittarne assoggettando la regione del Rojava.

Va infine considerato anche il ruolo dell’Iran, che al netto delle probabili nuove provocazioni israeliane, continuerà a mantenere un basso profilo in Siria, contando nella consolidazione dei propri vantaggi strategici acquisiti conseguentemente al loro intervento nella crisi siriana. Infatti, fintanto che l’Iran rimarrà in Siria è più che lecito aspettarsi nuovi raid israeliani in Siria, a cui difficilmente seguiranno rappresaglie simmetriche. Alla luce di queste considerazioni assegniamo alla crisi siriana un Rating A con outlook negativo.

YEMEN:

Nonostante gli sforzi e le risorse profuse dalle monarchia arabe guidate dall’Arabia Saudita, la rivolta dei ribelli Houthi dello Yemen non è stata risolta. La situazione rimane comunque aperta, anche per via delle scarse risorse dei ribelli Houthi, le cui sorti dipendono dalla loro capacità di mantenere il controllo sullo strategica città portuale di Hodeida sul Mar Rosso, da anni soggetta ad una fortissima pressione militare. Se la coalizione araba riuscisse a prendere Hodeida, la rivolta Houthi sarebbe segnata, anche se ciò non si tradurrebbe automaticamente in una vittoria del fronte governativo filo-saudita, date le non indifferenti difficoltà nell’avanzare tra le roccaforti montane dell’organizzazione zaydita. Recentemente è stata nuovamente avanzata la possibilità di riavviare dei negoziati di pace, che attualmente sembrano l’ipotesi più idonea a risolvere la crisi yemenita, tuttavia, tutto dipenderà dall’indirizzo strategico dell’Arabia Saudita, recentemente soggetta ad una fortissima pressione internazionale, sia per la gestione della crisi umanitaria nello Yemen, che per questioni interne legate alle ambizioni politiche del principe Mohammed Bin-Salman. Alla luce di queste considerazioni assegniamo alla crisi Yemenita un rating A con outloock negativo.

PAESI CON CLASSE DI RISCHIO B

LIBIA:

La crisi in Libia è passata in secondo piano nell’agenda internazionale, ma rimane fondamentale per molti paesi come il nostro, che dopo il mutamento di governo sembra intenzionato a revisionare l’approccio alla crisi libica, riconsiderando soprattutto il ruolo del leader della Cirenaica Khalifa Haftar, che gode di una base politica decisamente più solida di quella millantata dal suo avversario tripolino al-Serraj, sebbene sia riconosciuto quale leader libico ufficiale dalla comunità internazionale. Solo qualche mese fa il fragile governo tripolino di al-Serraj ha rischiato di essere rovesciato da una delle milizie che, almeno in teoria, dovrebbero sostenerlo, ma che praticamente lo tiene in ostaggio. Se Serraj continua a rimanere in piedi lo deve essenzialmente ai suoi sponsor turchi e qatarini, a cui suo malgrado, si è aggregata l’Italia, mantenendo una posizione conservativa alla crisi.

In Cirenaica, il Generale Haftar è riuscito ad impedire che la galassia di milizie “post-rivoluzionarie” prendesse il sopravvento, contribuendo alla formazione di un vero e proprio esercito subordinato ad un comando disciplinato e centralizzato, che alle giuste condizioni internazionali potrebbe anche riuscire nell’impresa di marciare su Tripoli, ipotesi non di certo sgradita ai suoi sponsor egiziani e russi, ma che probabilmente accontenterebbe meno gran parte dell’occidente. Questo scenario potrebbe essere sventato dalle programmate elezioni, a cui sembra voler prendere parte anche Saif al-Islam Gheddafi, il figlio del vecchio leader libico assassinato nel 2011. Ad ogni modo, in mancanza compromesso tra i due governi libici le elezioni rischiano seriamente di essere rinviate a data da destinarsi. Alla luce di queste considerazioni classifichiamo la crisi libica con un rating B con outlook positivo.

ISRAELE:

Nel corso del 2018 Israele è stato protagonista di una serie di micro-escalation con Hamas a Gaza, che con ogni probabilità si riproporranno anche nel corso del prossimo anno. Tuttavia, molti segnali lasciano ipotizzare che il prossimo fronte a riscaldarsi nel prossimo anno sarà quello settentrionale al confine con il Libano, dove il governo di Tel Aviv teme il progressivo rafforzamento del potenziale offensivo delle milizie di Hezbollah, che nel corso degli ultimi anni hanno beneficiato di importanti travasi tecnologici-militari dai loro alleati iraniani, soprattutto missili balistici a corto raggio. Questi missili, oramai prodotti in loco all’interno di fabbriche sotterranee disseminate per tutto il Libano, nel giro di qualche anno potrebbero essere in grado di minacciare seriamente la sicurezza israeliana. Nello specifico, a Tel Aviv temono che in caso di confronto con l’Iran, il Libano possa trasformarsi in una piattaforma di rappresaglia dal potenziale assimilabile a quello di una super-portaerei.

Ecco perché nel corso del prossimo anno Israele potrebbe decidere di intervenire ingaggiando un confronto con Hezbollah, approfittando dei postumi della recente campagna siriana, ponendo fine alla proiezione strategica di Teheran nel Mediterraneo. Va considerato poi che il ripudio degli accordi sul nucleare con l’Iran da parte degli Stati Uniti potrebbe poi agevolare una possibile iniziativa israeliana contro le installazioni nucleari iraniane, ponendo fine al suo presunto programma nucleare militare, innescando una possibile rappresaglia missilistica che verosimilmente coinvolgerebbe proprio le milizie Hezbollah. Infine non vanno trascurate le possibilità di frizioni con la Turchia soprattutto allo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale al largo delle coste cipriote. Alla luce di queste considerazioni assegniamo alla situazione in Israele un rating B con outlook positivo.

TURCHIA:

La situazione in Turchia è apparentemente stabile, ma soggetta a molteplici fonti di instabilità, sia sul piano politico interno, che su quello esterno a 365°. Spesso, infatti, si trascura lo stato di guerra che il paese da anni vive nell’entroterra della penisola anatolica, dove opera l’organizzazione terroristica marxista curda del PKK, con cui Erdogan aveva abbozzato un tentativo di negoziato, affossato conseguentemente all’innesco della crisi siriana del 2011. Come è noto, nel corso della crisi siriana Ankara ha sostenuto l’ascesa della rivolta islamista, impedendo ai curdi del PKK di correre in soccorso dei curdi siriani assediati dalle milizie dell’ISIS, atteggiamento che ha compromesso i fragili negoziati di pace avviati su impulso del leader curdo Ocalan. Da allora, il rapporto tra i curdi e il governo turco si è deteriorato ulteriormente, anche per via del sostegno che i curdi siriani hanno ricevuto dagli Stati Uniti, in una strategia speculare a quella con cui Washington ha favorito l’autonomia dei curdi iracheni. La Turchia, infatti, teme che dietro la complicità americana, si celi l’intenzione di promuovere un processo di indipendenza curdo che nel medio-lungo periodo finirebbe inevitabilmente per coinvolgere la vasta comunità curda presente nell’entroterra della penisola anatolica. Questa minaccia all’integrità territoriale turca posta dal paese principale della NATO, alleanza di cui Ankara è parte, ha indotto il governo di Erdogan a cercare un accordo con la Russia di Putin patrocinando il disinnesco della ribellione islamista nei pressi di Idlib, proprio per dedicarsi al rafforzamento della sicurezza dei confini siro-turchi minacciati dal consolidamento del potenziale militare curdo nella regione.

Dinnanzi alle reiterate richieste di disarmare i curdi, avanzate dai turchi, gli USA hanno reagito in modo elusivo, assecondandoli più a parole che con i fatti, continuando a far affluire mezzi ed armi alle milizie marxiste curde nel nord della Siria, nonostante la minaccia dell’Isis sia stata oramai quasi del tutto eliminata all’interno dei territori siriani ad est del fiume Eufrate. Erdogan dopo aver invaso il cantone curdo di Efrin, ha a più riprese minacciato di estendere l’operazione “Ramoscello d’ulivo” anche ai territori siriani ad est dell’Eufrate, proprio dove i loro alleati americani hanno allestito una base militare con cui tutelare i loro nuovi alleati curdi, tra l’altro, in flagrante violazione del diritto internazionale. I piani di Washington sono dunque incompatibili con quelli di Ankara, che ad un certo punto potrebbe decidere di mettere in discussione persino la proprio permanenza nella NATO, espellendo gli americani dalla strategica base aerea di Incirlik, dove sono dislocate un numero imprecisato di armi nucleari tattiche. L’eventuale messa in quarantena americano, metterebbe seriamente a rischio i rifornimenti ai curdi siriani e probabilmente anche a quelli iracheni, recentemente soggetti all’incremento della pressione del governo centrale di Baghdad, sempre più accomodante nei confronti delle istanze del vicino Iran, ugualmente intimorito da un rilancio dell’attivismo curdo locale. Certamente l’incoerenza a cui ci ha abituato il governo di Erdogan non esclude possibili nuovi capovolgimenti di fronte della Turchia, soprattutto in caso di escalation tra Russia e Ucraina, ipotesi che potrebbe indurre Ankara a rientrare nei ranghi dell’alleanza atlantica, ottenendo in cambio congrue garanzie sul piano curdo. Ipotesi, questa, da prendere in seria considerazione dopo l’annunciato ritiro americano dai territori del nord-est siriano.

Anche sul versante mediterraneo la Turchia si ritrova a gestire un’altra potenziale crisi potenziale legata alle dispute territoriali relative allo sfruttamento dei ricchissimi giacimenti di gas naturale in prossimità dell’Isola di Cipro, dove Israele svolge un ruolo di primo piano. Contesa che va aggiunta all’annoso rapporto con i greci relativamente alle acque circostanti le isole del Mar Egeo, che potrebbe innescare un’altra seria contraddizione interna alla NATO, in cui il ruolo di Ankara è messo sempre più in dubbio, ed il congelamento della fornitura dei caccia-bombardieri stealth F-35, sommato all’acquisto del sistema antiaereo russo S-400 lo stanno a dimostrare.
Infine non va trascurata la possibilità che la base di potere di Erdogan venga nuovamente sfidata dall’opposizione, che qualche anno fa ha tentato un maldestro colpo di stato, che ha permesso al governo di Ankara di restringere ulteriormente i margini politici dell’opposizione interna, che potrebbe tuttavia tentare l’abbozzo di una “rivoluzione colorata” con cui destabilizzare il primato del movimento islamista di Erdogan, ricollocando la Turchia stabilmente all’interno dello scacchiere occidentale. Alla luce di queste considerazioni classifichiamo la situazione turca con un rating B con outlook positivo.

LIBANO:

La situazione libanese è sempre più nelle mani del movimento sciita libanese degli Hezbollah, da anni impegnato nella risoluzione della crisi in Siria, paese essenziale per continuare a ricevere supporto dai propri alleati iraniani, con cui condividono una forte ostilità verso Israele, considerato entità sionista occupante del territorio palestinese. L’impegno in Siria, oltre a mettere alla prova la coesistenza sociale interna per via dei massicci flussi di rifugiati, ha certamente messo alla prova anche le capacità militari delle milizie di Hezbollah, a cui nel corso degli anni l’Iran ha continuato ad inviare mezzi e risorse proprio in funzione anti-israeliana. Parliamo soprattutto di missili a corto e medio raggio, dislocati all’interno di basi interrate disseminate all’interno dei territori libanesi, e pronti ad essere utilizzati in caso di escalation. L’uso di questi missili non è tuttavia all’ordine del giorno, ma subordinato a due eventualità: una nuova invasione israeliana del Libano o un attacco israeliano o americano dell’Iran.

Questo approccio conservatore è determinato dall’inadeguatezza delle forze libanesi e iraniane, che dopo la crisi siriana necessitano di tempo per recuperare dall’impegno profuso nel conflitto contro l’insurrezione jihadista sunnita. Quello che a Beirut e a Teheran temono è che proprio durante questa fase di riorganizzazione, Israele possa innescare un escalation per sfruttare il proprio primato militare, disarticolando definitivamente la minaccia iraniana configurata da Hezbollah nella regione. In questi giorni tale ipotesi è divenuta sempre più probabile, soprattutto dopo l’individuazione di alcuni tunnel sotterranei proprio sul confine israelo-libanese, su cui vigila una missione ONU (UNIFIL), di cui è parte anche dal nostro esercito. Alla luce di queste considerazioni assegniamo alla situazione libanese un rating B con outlook postivo.

VENEZUELA:

La situazione politica venezuelana è giunta ad un punto critico. Sul piano interno l’opposizione ha già tentato un golpe, e l’economia stagnante rischia di erodere la base di consenso del governo presieduto da Maduro che, a differenza del suo predecessore Chavez, non gode del suo eccezionale carisma popolare. Come se ciò non bastasse, l’economia venezuelana è messa alle corde anche dalle sanzioni varate dagli Stati Uniti, a cui il governo socialista di Caracas sta cercando di far fronte promuovendo una nuova moneta basata sulle esportazioni petrolifere e sul sostegno finanziario garantito dalla Cina e quello politico avanzato dalla Russia, che recentemente ha inviato in esercitazioni due suoi bombardieri strategici TU-160, mandando un segnale forte agli Stati Uniti e ai suoi alleati regionali, Colombia e Brasile. L’inasprimento delle sanzioni contro Mosca e Caracas sta infatti favorendo il potenziamento delle loro relazioni bilaterali.

Addirittura, recentemente si è ventilata la possibilità che la Russia apra una base militare proprio in Venezuela, dislocando missili a raggio intermedio, in reazione al ripudio americano del trattato che fino a qualche settimana fa vietava tale categoria di missili, e che potrebbe ripristinare nei caraibi il vecchio clima della guerra fredda. Ad ogni modo, nel corso del prossimo anno è più che lecito aspettarsi un Venezuela sotto pressione sul piano interno, dove l’opposizione potrebbe tentare di innescare una rivolta, che a quel punto potrebbe fornire agli Stati Uniti un pretesto per intervenire nel paese, ipotesi che alla Casa Bianca considerano seriamente, come lasciato trapelare da diverse fonti americane nel corso dell’anno. Alla luce di queste considerazioni assegniamo alla situazione in Venezuela un rating B con outlook positivo.

ARABIA SAUDITA:

La situazione in Arabia Saudita rischia di precipitare a livello interno, a causa dell’avanzata età di Re Salman destinata ad accelerare le vorticose spinte centrifughe interne alla dinastia saudita, non del tutto convinta della designazione del giovane figlio Mohammed Bin-Salman alla guida della principale petro-monarchia del Golfo Persico, le cui finanze, con il barile al di sotto degli 80$, iniziano a scontare la fallimentare campagna yemenita e l’esito sfavorevole della crisi siriana. Come se ciò non bastasse, la leadership del principe Mohammed è stata recentemente indebolita dallo scandalo legato alla scomparsa del giornalista Kashoggi all’interno del consolato saudita turco. A queste crisi, va poi aggiunta quella con il vicino Qatar, di cui si teme la pericolosa complicità con il movimento dei fratelli musulmani e l’approccio conciliante con l’odiato governo iraniano.

Tutte queste situazioni potrebbero scatenare una spirale caotica interna all’Arabia Saudita, su cui aleggia la minaccia di un possibile colpo di stato finalizzato a sventare l’intronizzazione del principe Mohammed, che tuttavia potrebbe anche decidere di compattare il clima interno aprendo un nuovo fronte con il Qatar, anche a costo di entrare in contrasto con i loro alleati turchi, che si accingono ad aprire una loro base militare in zona. I sauditi infatti temono che il Qatar possa utilizzare la proprio influenza sulla fratellanza musulmana per destabilizzare l’ordine nel paese, ipotesi improbabile, ma che non va affatto sottovalutata. Alla luce di queste considerazioni assegniamo all’Arabia Saudita un rating B con outlook positivo.

KOSOVO / SERBIA:

La situazione in Kosovo negli ultimi mesi si è progressivamente riscaldata con crescenti provocazioni da parte di Pristina, convinta di godere del pieno e incondizionato supporto occidentale, soprattutto quello americano. Quel che è certo, è che la situazione è talmente grave da aver affossato il timido processo di integrazione NATO della Serbia, che mal tollera il trattamento che il Kosovo assicura alla minoranza serba locale, soprattutto dopo la recente scelta di costituire un esercito nazionale kosovaro. Questo clima potrebbe riaccendere i riflettori sui Balcani nel corso del prossimo anno. Alla luce di ciò assegniamo al Kosovo un rating B con outlook positivo.

IRAQ:

Sebbene la crisi Isis sia rientrata nel corso del 2018, il paese rimane comunque soggetto a fortissime pressioni geopolitiche che contrappongono il vicino Iran al fronte delle monarchie arabe sunnite del golfo sostenute dagli Stati Uniti, che tra l’altro costituiscono anche il principale alleato dei curdi del Kurdistan iracheno, recentemente costretti a cedere il controllo degli strategici pozzi petroliferi di Kirkuk al governo centrale di Baghdad, sostenuto proprio dalle potenti milizie sciite supportate da Teheran. La situazione irachena non è semplice, anche perché all’interno del fronte sciita iniziano a palesarsi le prime crepe tra i nazionalisti arabi sadristi e le componenti più fedeli alla linea iraniana.

A questa instabilità politica si aggiunge l’endemica insoddisfazione della minoranza sunnita, soggetta negli ultimi anni a pesantissime persecuzioni, a causa della verosimile complicità con le milizie dell’Isis. Anche nel Kurdistan iracheno la situazione non è delle migliori, con le principali formazioni curde, alleate ma divise dalle rinnovate lotte per il potere, soprattutto dopo il contestato referendum sull’indipendenza, tematica che potrebbe riproporsi nel prossimo futuro, e che ha fortemente ridimensionato il ruolo politico curdo a Baghdad. La situazione curda poi, rischia di risentire del deterioramento dei rapporti tra USA e Turchia, che in caso di implosione rischia di configurare un pericoloso isolamento regionale che li lascerebbe inesorabilmente in balia del governo centrale di Baghdad. Alla luce di queste considerazioni assegniamo alla situazione irachena un rating B con outlook stabile.

COREA:

Nel corso del 2018 la crisi coreana si è sorprendentemente attenuata, e le provocazioni missilistiche e nucleari hanno lasciato il posto ad un inaspettato processo di distensione sia nel rapporto tra Pyongyang e Seul, che tra Pyongyang e Washington. Addirittura il leader nordcoreano Kim Jong-Un ha promosso un’offensiva diplomatica incontrandosi prima con il presidente sudcoreano Moon e successivamente con quello americano Trump, con cui negli scorsi mese si era reso protagonista di vivacissimi scontri mediatici, superati tra sorrisi e pacche sulle spalle in quel di Singapore. Se il 2018 è stato l’anno della distensione, il 2019 sarà l’anno dei negoziati, che si prevedono piuttosto ostici e complicati. Infatti, i nordcoreani hanno subordinato ogni possibile processo di denuclearizzazione alla stipula di un trattato di pace definitivo sia con Seul che con Washington, anche se a Pyongyang e Seul l’ipotesi di un trattato di pace bilaterale senza il coinvolgimento degli Stati Uniti trova non pochi favori. Tuttavia, gli Stati Uniti sembrano risoluti nel richiedere una denuclearizzazione unilaterale incondizionata, ipotesi inaccettabile per la Corea del Nord, che a quel punto non avrebbe più motivi per mettere in discussione il proprio programma nucleare, ripristinando le ostilità con gli Stati Uniti. Detto questo, è poi probabile che lo scontro commerciale tra USA e Cina produca riverberi anche sulla gestione della crisi coreana, pregiudicando il processo negoziale, il cui progresso sarebbe altamente improbabile senza il coinvolgimento di Pechino. Alla luce di queste considerazioni assegniamo alla crisi coreana un rating B con outlook negativo.

PAESI CON CLASSE DI RISCHIO C

IRAN:

La situazione in Iran è stabile, ma soggetta a rischi non indifferenti, sia sul piano interno che su quello esterno. Sul piano interno durante l’anno si è registrato un accenno di rivolta, progressivamente rientrato per mancanza di una evidente regia, ma che il prossimo anno potrebbe anche riproporsi con maggiore efficacia, mettendo a rischio il delicatissimo ordine interno del paese, su cui incombe il rischio della mobilitazione curda, specularmente a quanto avvenuto nel corso degli ultimi anni in Iraq e Siria. Sul piano internazionale, grava invece il ripudio degli accordi sul nucleare da parte degli Stati Uniti, il cui Presidente Donald Trump sembra intenzionato a rinegoziare, nonostante la ritrosia dei propri alleati europei, che preferirebbero conservarli, insieme ai ricchi accordi commerciali negoziati con Teheran nel corso degli anni. Teheran, come già detto, non sembra affatto disposta a rinegoziare un accordo che tutt’oggi continuano a rispettare, come la stessa AIEA certifica da anni, posizione che comunque è destinata ad incrementare inevitabilmente la tensione nel Golfo Persico, che Arabia Saudita e Israele alimentano da anni. Il ripristino delle sanzioni USA, rischia così di rimettere in quarantena l’economia iraniana, con ovvie ricadute sulla già difficile situazione interna, e con ogni probabilità anche sul mercato petrolifero globale. A tal proposito, nel corso del 2018, Teheran ha più volte ventilato la minaccia di chiudere lo strategico stretto di Hormuz nel caso in cui gli si fosse impedito di vendere il proprio petrolio, ipotesi possibile, ma che va ritenuta una extrema ratio, limitata ad una possibile rappresaglia conseguente ad un grave attacco diretto da parte degli Stati Uniti o da Israele.

Di certo, durante il prossimo anno l’Iran sarà sottoposto ad una fortissima pressione internazionale, e dinnanzi alla prospettiva di una ripresa a pieno regime del suo controverso programma nucleare cresce la possibilità che Israele decida di agire unilateralmente colpendo gli obiettivi nucleari iraniani, avvalendosi presumibilmente della complicità dell’Arabia Saudita, ad esempio sfruttandone lo spazio aereo. Un’azione simile innescherebbe con ogni probabilità una rappresaglia missilistica iraniana su Israele, e forse anche sulla stessa Arabia Saudita, ad esempio bersagliando i pozzi petroliferi della costa orientale, mandando in tilt il mercato energetico globale e non solo. A queste ipotesi, va aggiunta la remotissima possibilità che Teheran sia riuscita in qualche modo a dotarsi di un ordigno nucleare da imbarcare su un vettore destinato a colpire Israele, ipotesi questa, che molte fonti d’intelligence escludono categoricamente, ma che rimane comunque una possibilità, visto e considerati gli stretti legami tra l’Iran e la Corea del Nord, la cui collaborazione militare potrebbe non essersi limitata esclusivamente all’ambito balistico. Detto questo, durante il prossimo anno il rapporto tra Washington e Teheran si prospetta al dir poco complicato, e il rischio che alla fine si giunga ad uno scontro diretto tra i due paesi costituisce una seria possibilità. Alla luce di queste considerazioni assegniamo alla situazione iraniana un rating C con outlook postivo.

CINA:

La Cina continua a crescere sul piano economico, seppur in misura minore che in passato, avanzando ambiziosissimi progetti commerciali come quello della “Via della Seta”, accolto entusiasticamente da molti paesi del blocco euroasiatico, ma non certo dagli Stati Uniti, che al contrario temono di rimanerne tagliati fuori, perdendo la propria posizione egemonica incentrata sul primato valutario del dollaro. Nel prossimo anno, è molto probabile che la guerra commerciale sino-americana inizi ad intensificarsi, proiettando i suoi effetti innanzitutto sulla disputa del Mar cinese meridionale, passando per Taiwan e la Corea del Nord. La tensione nella regione è destinata a crescere nei prossimi anni, e a giudicare dal potenziamento della marina militare, Pechino ne è pienamente consapevole. Va poi tenuta in considerazione la possibilità che le proteste abbozzate ad Hong Kong possano riproporsi, destabilizzando l’ordine socio-politico cinese impostato del Partito Comunista Cinese. Alla luce di queste considerazioni assegniamo alla situazione cinese un rating C con outlook positivo.

EUROPA:

Il prossimo anno sarà un anno determinante per il futuro del progetto di integrazione europea, insidiato dalle imminenti elezioni europee, dove si prospetta l’avanzata delle forze politiche euroscettiche, ma soprattutto un forte indebolimento delle forze politiche europeiste che, soprattutto dopo la BREXIT, sono state messe alle corde un po’ in tutto il continente. Alla sfida politica si somma poi quella geopolitica, perché a Bruxelles, più che la Russia, temono probabilmente più l’incombente influenza degli Stati Uniti, da cui il duopolio Francia-Germania sta cercando sommessamente di svincolarsi, avanzando la necessità di un esercito europeo con cui difendere l’indipendenza del progetto comunitario sia dalla Russia che dagli stessi Stati Uniti. Il rapporto tra l’Europa e gli USA è sempre meno scontato, soprattutto dopo l’elezione di Trump, intenzionato a sfruttare l’Italia per indebolire l’indesiderato asse Parigi-Berlino, effettivamente incapace di riformare il progetto europeo, le cui aspettative sono state ampiamente disattese, soprattutto tra i ceti medi popolari dei paesi membri, che il prossimo anno potrebbero seguire l’esempio francese dei “gilet gialli” animando le piazze di mezza Europa, rivendicando un futuro migliore, su cui tuttavia incombe l’ombra di Washington, pronta a sfruttare le più che legittime aspirazioni popolari per i suoi soliti propositi egemonici geopolitici. Alla luce di ciò assegniamo all’Europa un rating C con outlook positivo.

QATAR:

Il piccolo, ma ricchissimo, emirato del Golfo Persico, è guidato dal giovane emiro Tamin al-Thani, responsabile della svolta che sta allontanando il paese dall’egemonica influenza saudita, con l’aiuto del governo islamista turco di Erdogan, che ha assicurato protezione al regno, dislocandovi una base militare, con cui intende garantire Doha da una possibile aggressione saudita. La recente notizia dell’abbandono dell’OPEC ha scosso i mercati internazionali, sebbene il peso di Doha sul mercato non sia paragonabile a quello saudita, tuttavia, la mossa è certamente rilevante poiché lascia intendere la volontà di muoversi indipendentemente dalle logiche del Consiglio di Cooperazione del Golfo, senza contare che, al contrario dell’Arabia Saudita, il Qatar gode di immense riserve di gas naturale, alcune delle quali gestite in coabitazione con il vicino Iran, con cui Doha intende trovare una migliore sintonia nel corso del prossimo anno, nonostante le minacce e l’isolamento promosso dai vecchi alleati sauditi. L’approccio conciliante di Doha verso Teheran è rilevabile in Siria, dove insieme ai propri alleati turchi Doha ha contribuito a congelare la ribellione islamista, trovando un accordo proprio con l’Iran, e conseguentemente anche con la Russia. Il Qatar, come è noto, si appresta ad ospitare i mondiali di calcio del 2022, obiettivo che necessita di una stabilità, che i suoi avversari sauditi proveranno a sabotare nei prossimi mesi a seguire. Alla luce di queste considerazioni assegniamo al Qatar un rating C outlook positivo.

MESSICO:

L’incremento dei flussi migratori provenienti dal sud America verso gli Stati Uniti riscalderà inevitabilmente il confine tra Messico e USA, mettendo alla prova la solidità delle politiche di contrasto all’immigrazione clandestina dell’amministrazione Trump, che ha addirittura ipotizzato il dislocamento dell’esercito a difesa dei propri confini meridionali. Di certo un’eventuale sigillamento del confine configurerebbe una gravissima crisi umanitaria, i cui riverberi sociali potrebbero destabilizzare fortemente l’ordine socio-politico messicano, contribuendo ad un ulteriore e deterioramento dei rapporti bilaterali con gli Stati Uniti. Alla luce di queste considerazioni assegniamo al Messico un rating C con outloock positivo.

CUBA:

L’amministrazione americana Trump non sembra intenzionata ad insistere sul processo di normalizzazione dei rapporti con Cuba avviato da Obama, e anzi potrebbe addirittura pensare di affossarlo. La fine dell’era dei fratelli Castro, e l’ascesa della nuova leadership socialista aperta alle influenze liberali, potrebbe dunque non bastare a superare l’annosa crisi tra i due paesi. Storicamente quanto i paesi autoritari si aprono, sono più vulnerabili a tentativi di destabilizzazione, e l’opposizione cubana potrebbe approfittarne per rovesciare il governo godendo del più o meno tacito supporto degli USA, che si sentono sempre meno vincolati dagli equilibri strategici negoziati durante l’epoca sovietica. Gli Stati Uniti infatti potrebbero approfittarne per chiudere la pratica Cuba, proprio adesso che in Russia si sta ipotizzando il ripristino di alcune basi militari nell’isola caraibica, dove addirittura c’è chi specula sulla possibilità che Mosca possa ridislocare missili a raggio intermedio, in reazione al ripudio del trattato INF e della crescente pressione militare ai propri confini, come del resto la crisi ucraina dimostra. Alla luce di ciò assegniamo a Cuba un rating C con outlook positivo.

BIELORUSSIA:

La situazione nel paese è stabile ma potenzialmente esplosiva, il governo presieduto da Lukashenko rimane l’unico alleato europeo di Mosca, di cui comunque teme la crescente influenza. Sul piano interno la debole situazione economica potrebbe agevolare dinamiche destabilizzanti che dal piano sociale potrebbero facilmente contagiare la sfera politica. Detto questo, le preoccupazioni maggiori derivano forse dal piano esterno, giacché la Bielorussia confina con l’Ucraina, e in caso di una escalation diretta con la Russia finirebbe inevitabilmente per essere coinvolta, tanto che alcuni dei piani di militari considerati da Kiev ipotizzano anche una possibile invasione russa proprio dal versante bielorusso. Alla luce di quest’ultima considerazione assegniamo alla Bielorussia un rating C con outlook positivo.

STATI UNITI:

Il rischio che gli Stati Uniti vengano coinvolti in una crisi internazionale nel corso del prossimo anno è prossimo al 100%, ma ciò non sorprende, poiché questo stato di cose è in linea con la storia americana. Di certo, nel corso dell’anno la tensione con Russia e Cina crescerà inevitabilmente, ma quello che desta più preoccupazione è la possibilità che gli USA si ritrovino a gestire una crisi interna. Dall’elezione di Donald Trump il paese si è profondamente diviso, polarizzando la realtà politica tra sostenitori della svolta del Tycoon ed i suoi antagonisti, riconducibili ad ambienti democratici, liberal e persino repubblicani, dove si arriva ad avanzare addirittura l’eventualità di un impeachment. Anche tra i mass-media traspare una forte ostilità nei confronti dell’amministrazione Trump, delegittimata al punto tale da giustificare un’eventuale serie di proteste organizzate (più o meno colorate) finalizzate proprio all’indebolimento della presidenza, innescando un clima di caos socio-politico in cui le anime politiche prevalenti nel paese si ritrovino in una situazione di aperto contrasto, rischiando di porre le condizioni per una guerra civile a bassa intensità. Per queste ragioni assegniamo agli USA un rating C con Outlook positivo.

GEORGIA:

La crisi russo-georgiana potrebbe riaccendersi conseguentemente all’elezione della nuova presidente filo-occidentale Zurabishvili, che non ha esitato a bollare Mosca come un paese occupante e imprevedibile. A Tbilisi intendono accelerare sul processo di adesione all’UE e alla NATO, premesse che potrebbero presto creare le condizioni per una crisi simile a quella ucraina. Alla luce di queste considerazioni assegniamo alla Georgia un rating C con outlook positivo.

NIGERIA:

La Nigeria vive un momento di forte instabilità, soprattutto a nord dove la presenza dell’organizzazione terroristica islamista Boko Haram è particolarmente forte, tanto da poter estendere la portata della propria minaccia a tutto il paese, che per la cronaca è uno dei principali esportatori globali di petrolio greggio. Ecco perché assegniamo alla situazione nigeriana un rating C con outlook positivo.

REPUBBLICHE CENTRO-ASIATICHE:

La situazione nelle 4 repubbliche centroasiatiche post-sovietiche da anni soffre i tentativi di destabilizzazione avanzati dal terrorismo islamista provenienti dal vicino Afghanistan, dove i Talebani hanno sostanzialmente vinto il confronto con gli Stati Uniti, al punto da indurre il presidente Trump a riconsiderare il proprio impegno militare. Questi paesi conservano forti legami con la Russia, e la loro destabilizzazione rischierebbe di impegnare Mosca in un nuovo teatro di crisi. Crisi che se realizzata rischierebbe di vanificare parzialmente il progetto commerciale della “Via della Seta” promosso dalla Cina, su cui gravitano interessi strategici talmente vasti da bastare a giustificare tentativi di destabilizzazione di questa area geografica. Per queste ragioni assegniamo a questa regione un rating C con outlook positivo.

ALGERIA:

La situazione algerina è sottovalutata, ma rischia di esplodere repentinamente a causa dell’incapacità dell’establishment algerino nel predisporre una transizione politica credibile all’anziano Presidente Bouteflika. Il paese gode di immense risorse energetiche, dal petrolio al gas, e negli anni ha potenziato il suo apparato militare rivolgendosi al suo tradizionale fornitore russo. Il potenziamento militare algerino è stato lungimirante, poiché ha permesso di mantenere l’ordine nel paese, insidiato dal terrorismo islamista. Sul piano internazionale l’Algeria ha mantenuto il suo tradizionale basso profilo, evitando di farsi nemici potenti come ha fatto invece la vicina Libia, che sotto Gheddafi ha conquistato una rilevanza politica di primo piano, ma pagata a distanza di anni ad un prezzo altissimo. La mancanza di insidie esterne, come vale per molti altri paesi, tuttavia non esclude la presenza di quelle interne, che in caso di una improvvisa transizione dei poteri, potrebbero palesarsi repentinamente contribuendo a destabilizzare un paese stabile, da cui dipende la sicurezza energetica del continente europeo, Italia in primis. Ad ogni modo, alla luce di queste considerazioni assegniamo alla situazione algerina un rating C con outlook positivo.

PAKISTAN / INDIA:

Spesso si dimentica che la regione del Kashmir, contesa tra India e Pakistan rimane il teatro di crisi più esposto al rischio di un escalation nucleare. I rapporti tra i due paesi sono regolati da un fragilissimo equilibrio strategico che potrebbe essere compromesso in qualsiasi momento da un banale incidente di frontiera. All’interno del conflitto va considerata anche la crescente influenza cinese sul Pakistan, dove rischia di soppiantare la tradizionale partnership che Islamabad conserva con Washington, a cui consente da anni l’approvvigionamento delle truppe impegnate nella guerra in Afghanistan, ben lungi dall’essere risolta. Alla luce di queste premesse assegniamo alla crisi indo-pakistana un rating C con outlook stabile.