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CONOSCIAMO LA LIBIA (5° Parte)

LA “PRIMAVERA” ARABA LIBICA

All’inizio del nuovo millennio Muammar Gheddafi sembrerà proiettare la Libia su di un nuovo corso, integrandola a pieno titolo all’interno della comunità internazionale. Evoluzione agevolata sul piano economico da una congettura particolarmente favorevole ai paesi produttori di petrolio come la Libia. Prospettive economiche radicalmente diverse da quelle che all’inizio del 2011 faranno implodere la coesione socio-politica dei paesi di mezzo Medioriente, travolte del fenomeno delle cosiddette “primavere arabe”. Fenomeno che in Libia assumerà connotazioni extra-economiche, prendendo di mira la struttura politica della “Jamahiriya”. La scintilla che innescherà la deriva caotica che tutt’oggi attanaglia la Libia si verificherà il 16 febbraio con l’arresto di un attivista dei diritti umani legato alle famiglie delle vittime della strage del famigerato carcere di Abu Salim, dove erano reclusi importanti oppositori, molti dei quali riconducibili alla galassia dell’islamismo più o meno integralista. Arresto che susciterà una serie di proteste a Bengasi, dove le forze di polizia faticheranno a placare pur facendo ricorso all’uso della forza, provocando alcune vittime. Scontri e schermaglie che seguiranno anche il giorno successivo, assumendo una dimensione tale da sopraffare le forze di polizia libiche della città di Bengasi, dove si registreranno evasioni di massa di detenuti.

Saadi Gheddafi Libia
( Saadi Gheddafi durante la sua esperienza calcistica in Italia con la Sampdoria )

La caotica deriva di Bengasi interesserà anche Saadi Gheddafi, uno dei figli del leader libico noto tra le altre cose per aver militato tra le fila della Sampdoria, fatto esfiltrare dalla città scortato da un sostanzioso convoglio militare coordinato dal generale Abdallah al-Senussi, genero dello stesso Muammar Gheddafi, nonché capo dell’intelligence. Le notizie degli scontri verranno rilanciate, e in non pochi casi enfatizzate o addirittura ricostruite in maniera deliberatamente inaccurata, dai media panarabi al-Arabiya e al-Jazeera, le emittenti di riferimento di Arabia Saudita e Qatar, paesi tradizionalmente ostili al governo libico di Gheddafi. Notizie a volte vere, a volte false, che in ogni caso contribuiranno ad esasperare il clima all’interno del paese, dove le proteste contageranno anche altre città della Cirenaica, regione storicamente ostile a Gheddafi, e tradizionalmente legata all’islamismo, da quello più autoctono legato alla confraternita dei Senussi a quello più radicale contiguo al movimento dei Fratelli musulmani. Fermenti che si estenderanno rapidamente anche nella più cosmopolita regione della Tripolitania, soprattutto nella città di Misurata, dove i manifestanti prenderanno d’assalto alcune caserme avvalendosi di autobombe azionate da kamikaze. Dinamiche che evidenzieranno rapidamente il carattere militare di una rivolta la cui organizzazione tattica suggeriva un movente tutt’altro che spontaneo e improvvisato, tanto da spiazzare le forze di sicurezza locali, costrette ad evacuare precipitosamente la città.

LA DERIVA MILITARE DELLA RIVOLTA

La progressiva espansione della rivolta verrà agevolata dalle prime defezioni governative, come quella del Ministro degli interni Abdul Fatah Younis, considerato uno degli ufficiali militari chiave dell’esercito libico, personalmente convinto che Gheddafi avrebbe difeso la sua leadership fino alle estreme conseguenze. Ma parallelamente alle defezioni militari si farà notare la non meno rilevante quota di miliziani islamisti legati al “Gruppo dei Combattenti Islamici Libici” (LIFG), che dopo essere evasi in massa dalle carceri libiche, proveranno a prendere le distanze da al-Qaida, riunendosi sotto la leadership di Abdelhakim Belhadj, perseguendo l’obiettivo dell’instaurazione di un governo islamista in Libia. Per la cronaca, Belhadj sarà tra i beneficiari, insieme ad altri esponenti islamisti, dell’amnistia promossa conseguentemente allo slancio riformista di Saif al-Islam Gheddafi, che a differenza del padre smetterà di considerarli una minaccia urgente alla sicurezza nazionale. Ad ogni modo, al netto delle prese di posizioni moderate, tra le fazioni islamiste libiche più radicali militeranno alcuni noti terroristi precedentemente detenuti presso il carcere speciale di Guantanamo Bay, a cui si aggiungerà la considerevole quota di terroristi evasa dalle carceri libiche. La pressione tattica esercitata dalle prime milizie ribelli costringerà il governo ad arginarne il potenziale offensivo, ordinando all’aviazione militare il bombardamento delle basi militari cadute sotto il controllo degli insorti. Aviazione che, per quanto scarna dopo anni di sanzioni internazionali, riuscirà comunque a mettere in difficoltà tattica le iniziative militari ribelli, a cui il governo libico inizierà a contrapporre l’esercito in luogo delle inadeguate forze di sicurezza locale.

Dinnanzi all’insurrezione in corso, Muammar Gheddafi reagirà minacciando di dissiparla in maniera forte, proprio mentre la deriva caotica iniziava a sentirsi anche nella capitale Tripoli. Questo clima caotico verrà ulteriormente turbato dalle dimissioni del Ministro della giustizia Mustafa Abdel Jalil, che poco dopo essersi schierato dalla parte dei ribelli, accuserà platealmente Gheddafi di essere il regista che ha deliberatamente ordinato l’attentato culminato nella strage di Lockerbie del 1988, di cui il leader libico si era sembra ritenuto all’oscuro. La destabilizzazione della catena di comando libica si ripercuoterà sui fragili equilibri tribali, suscitando crescenti perplessità circa l’opportunità di continuare a sostenere l’ordine trentennale garantito Gheddafi. Incertezza amplificata anche dalle speculazioni che sul finire di febbraio davano il leader libico in fuga in Venezuela, dove poteva contare sull’ospitalità dell’amico Hugo Chavez. Speculazioni che il colonnello smentirà nel corso di un discorso televisivo dai toni accesissimi in cui, con il suo libro verde alla mano, sosterrà di non aver ordinato alle forze di sicurezza di sparare sui manifestanti, pur evidenziando di essere risolutamente disposto a dissipare qualsiasi tentativo di sedizione organizzato dalle intelligence straniere, citando quelle di Stati Uniti e Italia, a cui contesterà la fornitura di armi ai rivoltosi. Linea dura inizialmente non condivisa dal figlio Saif al-Islam, che interverrà nella crisi sostenendo la necessità di istituire una commissione d’inchiesta per rilevare le responsabilità delle forze di sicurezza negli scontri con i manifestanti. Posizione che più avanti abbandonerà, adeguandosi alla linea del padre, e contestando nettamente la deriva islamista del fronte ribelle.

Saif al-Islam Gheddafi Libia
( Saif al-Islam Gheddafi )

I RIBELLI COSTITUISCONO IL CNT

Il 26 febbraio il Consiglio di Sicurezza ONU condannerà l’uso della forza da parte del governo libico contro i manifestanti, sanzionando una serie di ufficiali libici, inclusi Gheddafi ed i suoi familiari più stretti. Il giorno successivo, la ribellione libica si darà un’organizzazione unitaria, riunendosi all’interno di un Consiglio Nazionale di Transizione (CNT), insediatosi nella città cirenaica di Beida, che sotto la leadership di Mustafa Abdel Jalil si autoproclamerà l’unica entità legittima a rappresentare il popolo libico. Proposito che poco dopo verrà riconosciuto da tutti i paesi occidentali, con in testa la Francia, accogliendo l’iniziativa diplomatica promossa da Mahmood Jibril, un’economista istruitosi tra Egitto e Stati Uniti, responsabile fino alla rivolta delle attività di pianificazione economica del paese, incarico che aveva ottenuto grazie alla sua vicinanza a Saif al-Islam Gheddafi, con cui aveva a lungo condiviso la necessità di riformare la Libia incanalandola su di un corso democratico di stampo liberale. Pur godendo del pieno supporto occidentale, il CNT faticherà a farsi riconoscere da altri paesi come Angola, Bolivia, Cuba, Ecuador, Nicaragua, Tanzania e Venezuela. Il riconoscimento del CNT da parte dei paesi occidentali seguirà l’introduzione di una serie di pesanti sanzioni economiche contro Gheddafi e l’establishment a lui vicino, a cui seguirà la valutazione della possibilità di un intervento militare a sostegno del fronte ribelle libico. Tra gli atti politici più evidenti del CNT ci sarà l’adozione del vecchio tricolore monarchico dei Senussi, che dal loro esilio britannico si schiereranno a sostegno del fronte ribelle, esortando i paesi occidentali ad imporre una “No fly zone”. Ma nonostante il suo attivismo, Idris bin Abdullah al-Senussi vedrà delusa la sua ambizione di ripristinare la vecchia monarchia, che nessuna fazione ribelle rilevante prenderà mai in seria considerazione, coltivando piani decisamente più autonomi.

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( Il leader del CNT Jalil esulta nella residenza di Gheddafi insieme ai presidenti di Francia e Regno Unito )

L’allargamento dell’insurrezione precluderà al governo il controllo del polo petrolchimico di Ras Lanuf, da dove le milizie ribelli inizieranno a muoversi lungo la costa libica in direzione ovest, avvalendosi di pick-up dotati di mitragliatrici pesanti, emulando la strategia che solo un decennio prima aveva caratterizzato le dinamiche della “guerra delle Toyota” in Chad. Tuttavia, nonostante gli iniziali successi, l’iniziativa ribelle verrà bloccata il 7 marzo nei pressi di Bin Jawad dalla controffensiva dell’esercito libico, capace di riassumere il controllo di Ras Lanuf. Sviluppo seguito dall’accerchiamento della città di Misurata da parte della brigata dell’esercito comandata personalmente da Kamis Gheddafi, uno dei figli del colonnello.

LA VIA MILITARE PREVALE SULLA DIPLOMAZIA

Parallelamente alle ostilità di quella che si stava delineando come una vera e propria guerra civile, interverrà l’iniziativa diplomatica del presidente venezuelano Hugo Chavez, avanzando la disponibilità a mediare una ricomposizione politica della crisi. Proposta negoziale accolta da Gheddafi, ma respinta fermamente dal CNT, che dinnanzi alla prospettiva di una sconfitta militare richiederanno a più riprese l’imposizione di una zona di interdizione al volo ai paesi NATO, così da precludere l’uso dell’aviazione aerea alle forze armate libiche. Tra i paesi occidentali più propensi ad una simile iniziativa si distinguerà la Francia di Sarkozy, convinto assertore della necessità di intervenire militarmente a tutela dei rivoltosi libici, in modo da agevolarne il rovesciamento del governo di Gheddafi.

Superato l’iniziale spiazzamento, il governo di Tripoli riuscirà a riorganizzare le forze armate, ripristinando progressivamente il controllo su numerose città cadute in mano ribelle. La controffensiva dell’esercito libico procederà spedita, scardinando le difese ribelli di Ajdabiya il 15 marzo, l’ultima città prima della roccaforte ribelle di Bengasi. Quando l’esercito libico sembrerà sul punto di assediare Bengasi, l’offensiva diplomatica del presidente francese Sarkozy riuscirà a convincere il Consiglio di Sicurezza ONU ad approvare una risoluzione che istituirà una “No Fly Zone” sui cieli della Libia. Risoluzione lungamente osteggiata in modo sfumato dalla Cina e in modo più netto dalla Russia, che tuttavia cederà poco dopo la visita con cui l’allora vice-presidente statunitense Joe Biden riuscirà a persuadere il presidente russo Dimitri Medvedev ad astenersi dall’apporre il veto sulla risoluzione che istituirà una zona interdetta al volo ai mezzi aerei libici finalizzata alla tutela della popolazione civile. La risoluzione, ribadendo la necessità di raggiungere il prima possibile un cessate il fuoco, autorizzerà il ricorso a tutte le misure ritenute necessarie alla protezione dei civili minacciati dalle forze del governo libico, assicurando il divieto di sorvolo sui cieli del paese, ma escludendo categoricamente qualsiasi forma di occupazione del territorio libico. Insieme alla Russia, che solleverà perplessità circa i limiti dell’iniziativa autorizzata dall’ONU, in sede di Consiglio di Sicurezza si asterranno Brasile, Cina, Germania e India.

In occasione della sessione ONU, in cui il dossier libico verrà liquidato in meno di un’ora di confronto, il ministro degli esteri francese Alain Juppè commenterà quello che stava succedendo in Libia definendola una rivoluzione che avrebbe cambiato il corso della storia, a cui il governo di Gheddafi si stava opponendo, evidenziando la necessità di agire tempestivamente al fine di impedire il collasso del fronte ribelle, dato per imminente. Juppè accoglierà come una buona notizia il fenomeno delle primavere arabe, considerandolo un respiro di aria fresca per la libertà e la democrazia in Nord Africa le cui prospettive non potevano essere pregiudicate da un governo ritenuto guerrafondaio e contrario al diritto internazionale. La delegazione tedesca, pur condividendo le motivazioni con cui la Francia giustificava la delegittimazione del governo di Gheddafi, si asterrà dal votare la risoluzione, annunciando l’intenzione di non partecipare alla operazioni militari autorizzate dall’ONU. Anche Brasile e India si asterranno, adducendo all’opacità relativa ai contorni che la “No Fly Zone” avrebbe assunto all’atto pratico, temendo la prospettiva di un ulteriore deterioramento della situazione. La Cina, invece, assumerà una posizione criptica molto defilata, sostenendo di essersi astenuta dall’apporre il veto per assecondare le richieste provenienti dalla Lega Araba dell’Unione Africana. Quanto all’Italia, dinnanzi alla pressione franco-americana, il governo Berlusconi, tra i fautori del potenziamento delle relazioni con la Libia, si renderà protagonista di un’inversione a u che nella sostanza vanificherà decenni di proficua politica estera italiana, con annessi interessi strategici fondamentali, dalla sicurezza energetica al controllo dei flussi migratori. E se in politica i valori di lealtà contano assai poco, il repentino mutamento strategico del governo Berlusconi diffamerà ancora una volta la credibilità internazionale dell’Italia, calpestando quel trattato di amicizia italo-libico in cui il governo di Roma si era impegnato solo qualche mese prima ad astenersi dall’aggredire la Libia, precludendo l’uso del territorio ad eventuali aggressioni promosse da paesi terzi.

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( Gheddafi con il presidente italiano Napolitano durante la sua visita a Roma )

L’OCCIDENTE SCHERMA I RIBELLI

L’approvazione della risoluzione del Consiglio di sicurezza coinciderà con la rapida progressione dell’esercito libico, oramai prossimo al ripristino del controllo su Bengasi, l’ultima roccaforte ribelle. L’ormai prossimo collasso delle difese ribelli, pressati dall’ingresso dell’esercito libico verrà impedito dal provvidenziale intervento dell’aeronautica militare francese, bersagliando i mezzi corazzati delle forze armate libiche alla periferia del capoluogo cirenaico. I raid francesi verranno seguiti nelle ore successive dal massiccio lancio di missili guidati Tomahawk da parte della marina militare statunitense diretti contro i sistemi di difesa aerea libica, in modo da garantire l’operatività dei bombardieri strategici, tra cui verranno impiegati persino i sofisticatissimi B-2 stealth. Conseguentemente all’intervento militare occidentale, Gheddafi proclamerà un cessate il fuoco, ma contestando all’ONU la mancata applicazione della No fly zone contro le forze aeree in forza ai ribelli. Proteste sostanzialmente ignorate, come dimostrerà il bombardamento che il 20 marzo devasterà il compound residenza di Bab al-Azizia, la residenza di Gheddafi teatro del raid statunitense del 1986. Parallelamente alle iniziative aeree, alcuni paesi come Francia, Regno Unito e Qatar contravverranno alla risoluzione ONU, inviando armi e consulenti militari a supporto indiretto delle milizie ribelli libiche.

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(Il presidente francese Sarkozy con Gheddafi nella residenza di Bab al-Azizia prima della guerra)

Il 31 marzo la NATO assumerà il coordinamento delle operazioni militari in Libia, classificandole nella missione “Unified Protector”, assumendosi la responsabilità di imporre il rispetto dei termini prescritti dalla risoluzione ONU a entrambe le parti in conflitto, anche se così non sarà. Oltre a Stati Uniti e Francia, tra le aviazioni dei paesi della coalizione che si distingueranno operativamente ci saranno quelle di Canada, Danimarca Norvegia e Regno Unito. L’intervento della coalizione NATO sgretolerà il potenziale militare dell’esercito libico, mettendo il fronte ribelle nelle condizioni migliori per avviare la controffensiva che da Bengasi si proietterà in direzione dello strategico polo petrolchimico di Ras Lanuf, dove tuttavia le forze governative riusciranno a mantenere le loro posizioni, resistendo al pesante martellamento dai ribelli sostenuti dalle aviazioni NATO per gran parte dell’estate. Intervento che inizierà a contravvenire il mandato ONU, configurandosi come appoggio diretto a vantaggio del fronte ribelle, facendo valere un’interpretazione al dir poco estensiva e arbitraria della risoluzione 1973 che autorizzava l’intervento a protezione della popolazione civile e non a sostenere una delle parti in conflitto come invece avverrà da lì in avanti. Dinamica contestata più volte dal Ministro della difesa libico Younis Jabr, secondo cui l’embargo alle forniture militari imposto dall’ONU veniva sistematicamente derogato a vantaggio delle forze ribelli.

IL SABOTAGGIO DEI NEGOZIATI

Dinnanzi alla debordante potenza di fuoco aggregata dalla NATO, Gheddafi avanzerà nuovamente la propria disponibilità a raggiungere il cessate il fuoco richiesto dall’ONU, aprendo ad una soluzione politica della crisi. Proposta che verrà ancora una volta ignorata, replicando raid aerei che includeranno tra gli obiettivi anche le residenze dei famigliari dello stesso leader libico, come avverrà il 30 aprile, quando uccideranno Saif al-Arab Gheddafi insieme alla sua figlia neonata, il figlio del colonnello ferito all’età di quattro anni nel corso del raid statunitense del 1986, e recentemente rientrato dalla Germania dove studiava fino a poche settimane prima. Vittima certamente eccellente, ma che non ricopriva alcun ruolo governativo, un po’ come le altre centinaia di vittime civili cadute vittime dei raid della coalizione occidentale. Ma per quanto forte fosse la pressione occidentale, l’esercito libico continuerà ad assediare importanti centri come Misurata, bombardandola pesantemente. Dinnanzi alla imprevista resistenza delle forze armate libiche, i ribelli faticheranno a ribaltare a proprio vantaggio le sorti del conflitto, tanto da indurre più di qualche governo a considerare la possibilità di un compromesso negoziale con Gheddafi.

A tal proposito va citato l’anomalo assassinio del generale Abdul Fath Younis, ucciso il 28 luglio in circostanze fosche dopo essere stato convocato nelle periferia di Bengasi, dove era stato convocato dalla leadership del CNT con cui collaborava dalle prime fasi dell’insurrezione. Più avanti, le intelligence di Francia e Stati Uniti attribuiranno l’assassinio di Younis al leader del CNT Jalil che, secondo alcune fonti, ne avrebbe ordinato l’assassinio perché ritenuto un traditore che continuava a mantenere contatti segreti con Saif al-Islam Gheddafi, probabilmente nel tentativo di trovare una soluzione negoziata al conflitto che stava dilaniando il paese. E sebbene il CNT attribuirà la fine del generale alle forze governative, considerandolo un eroe della rivoluzione, poco dopo il figlio di Younis prenderà pubblicamente le parti di Gheddafi, auspicandone il ritorno al potere. Criticità relative all’assassinio di Younis verranno sollevate anche dalla milizia ribelle di Misurata, ritenendola un’iniziativa unilaterale di alcune fazioni islamiste radicali che stavano iniziando a prendere il sopravvento sul CNT. Successivamente all’eliminazione di Younis, il comando delle milizie fedeli al CNT passerà a nelle mani di altri ufficiali disertori come Omar el-Hariri, uno dei promotori del golpe con cui i “Liberi Ufficiali” di Gheddafi rovesceranno la monarchia Senussi, ma che nel 1975 verrà imprigionato su ordine dello stesso leader libico. Nella gerarchia militare del CNT si annovereranno anche il comandante Suleiman Mahmoud e soprattutto l’ex-generale Khalifa Haftar, che subito dopo la fallimentare campagna in Chad aderirà all’opposizione libica esule all’estero, trasferendosi negli Stati Uniti, paese di cui acquisirà la cittadinanza, cooperando anche con l’intelligence locale.

Libia guerra generale Younis
( Il generale disertore Younis )

GHEDDAFI LASCIA TRIPOLI

Il 1 agosto i ribelli prenderanno il controllo della città di Zliten, sede di una delle più importanti milizie ribelli costituitasi nel mese di maggio sotto il comando di Osama al-Juwaili, un capitano addetto all’istruzione delle forze armate imparentato con un dirigente della banca centrale libica. E saranno proprio le milizie ribelli di Zlitan in collaborazione con quelle di Misurata ad iniziare l’assedio della capitale Tripoli. La pressione ribelle sulla capitale libica culminerà con l’insurrezione di Tripoli del 20 agosto, seguita dall’assalto dell’aeroporto internazionale e delle basi militari del comprensorio, compresa quella della brigata comandata da Khamis Gheddafi. Quattro giorni dopo, agevolati dal determinante supporto aereo della NATO, le milizie ribelli assumeranno il pieno controllo di Tripoli, espugnando il compound residenziale del colonnello Gheddafi, mentre il capo del governo Baghdadi Mahmudi lascerà la capitale, riparando in Tunisia, dove verrà arrestato per immigrazione illegale proprio mentre la capitale libica cadeva sotto il controllo delle milizie islamiste guidate da Abdelhakim Belhadj, e sostenute finanziariamente e tatticamente dal Qatar, che privilegerà i rifornimenti a queste milizie, limitando quelli destinati alle milizie direttamente sotto il controllo del CNT.

LA FINE DI MUAMMAR GHEDDAFI

La caduta di Tripoli ed il ripiegamento incontrollato dell’esercito incalzato dalle forze ribelle schermate dalla NATO, indurranno Gheddafi a disporre l’evacuazione della sua famiglia all’estero. Un nutrito convoglio con a bordo la moglie del colonnello Safia Farkash, ed i figli Muhammad, Hannibal e Ayesha Gheddafi, accompagnati dalle rispettive famiglie, varcherà il confine con l’Algeria il 27 agosto, trovandovi rifugio. Due giorni dopo, Khamis Gheddafi, anch’esso reduce del bombardamento americano del 1986, verrà ucciso, dopo molte false rivendicazioni, al culmine di un non meglio precisato raid aereo NATO. L’altro figlio del leader libico, Saadi Gheddafi dopo aver sostenuto dinnanzi ai media di aver avuto mandato per negoziare la cessione del potere al CNT, riparerà poco dopo in Niger, dove più avanti verrà arrestato con accuse false, finendo per essere detenuto e torturato per mesi dalle autorità locali. La fuga sarà un’opzione che, a differenza della sua famiglia, Muammar Gheddafi scarterà per se stesso, decidendo di trincerarsi fino alla fine insieme ai suoi fedelissimi nella sua città natale di Sirte. Scelta condivisa dal figlio Mutassim e dal Ministro della difesa Abu-Bakr Yunis Jabr, mentre Saif al-Islam Gheddafi si arroccherà con i suoi fedelissimi nel non lontano centro di Bani Walid. Conseguentemente alla caduta di Tripoli, il CNT emanerà un documento programmatico che avrebbe dovuto cessare i suoi effetti entro il 2013, termine ultimo per l’elaborazione di una nuova costituzione libica finalizzata all’istituzione di uno stato democratico con capitale Tripoli in cui l’islam sarebbe sta religione di stato e l’arabo la lingua ufficiale.

Libia Gheddafi monumento jet USA Bab al-Azizya
( Gheddafi davanti al monumento di Bab al-Azizya )

Sotto la pressione militare della più grande coalizione militare dai tempi della seconda guerra mondiale, le forze lealiste a Gheddafi verranno accerchiate, e martellate da cielo e terra fino al 21 ottobre, quando il leader libico verrà ucciso a sangue freddo in circostanze fosche. Nello specifico, il convoglio sulla quale Muammar Gheddafi stava evacuando da Sirte insieme ad un cospicuo gruppo di fedelissimi sarebbe stato intercettato da un caccia Tornado britannico, e successivamente attaccato da un drone Predator statunitense e da un caccia Mirage francese, contravvenendo al mandato delle Nazioni Unite. Intervento che permetterà ai ribelli di prendere facilmente d’assalto il convoglio distrutto nel corso del raid aereo, catturando il colonnello Gheddafi, suo figlio Mutassim e il Ministro della difesa Younis Jabr, tutti feriti più o meno pesantemente in conseguenza del raid aereo. Della cattura dei tre gerarchi del governo libico esistono alcuni brevi filmati che immortalano Gheddafi gravemente ferito, ma cosciente, malmenato dai ribelli che in circostanze non meglio chiarite lo uccideranno poco dopo la cattura. I resti di Gheddafi verranno dileggiati dai ribelli in preda all’esaltazione, ed esposti pubblicamente nella città di Misurata. La notizia della fine di Gheddafi verrà accolta con generale soddisfazione dalle leadership di tutti i paesi della coalizione NATO. Successivamente al raid, sebbene filmato ancora in vita, Mutassim Gheddafi verrà ucciso dai ribelli che lo avevano preso in custodia. L’assassinio del padre e del fratello verrà condannato aspramente da Saif al-Islam Gheddafi, trincerato nella città di Bani Walid insieme ai suoi ultimi fedelissimi, fino alla sua cattura avvenuta il mese successivo, cadendo in una trappola tesagli dalle milizie di Zlitan, da cui verrà preso in custodia, e torturato.

LA LIBIA POST-GHEDDAFI

Successivamente alla cruenta eliminazione di Gheddafi, il presidente del CNT, Mahmood Jibril, rassegnerà le dimissioni, lasciando l’interim provvisorio ad Ali Tarhouni, un’economista esule rifugiatosi negli Stati Uniti nel 1981. Poco dopo il CNT attribuirà, a maggioranza risicata, la premiership a Abdurrahim al-Keib, un’esponente dell’oligarchia tripolina costretta ad abbandonare il paese conseguentemente al il golpe dei liberi ufficiali di Gheddafi, trasferendosi negli Stati Uniti, dove negli anni ottanta si laureerà e insegnerà ingegneria fino al suo trasferimento negli Emirati Arabi Uniti nei primi anni duemila. La premiership di Keib inizierà in salita, soprattutto dopo che Tahrouni rifiuterà di entrare nel governo, contestandogli l’eccessiva contiguità agli interessi di paesi stranieri come il Qatar. Tuttavia, pur facendo fronte ad alla crescente insoddisfazione dei suoi rivali, el-Keib riuscirà comunque guiderà il paese durante la turbolenta fase che andrà dall’eliminazione di Gheddafi alle prime elezioni nazionali, amministrando in particolar modo le relazioni internazionali del paese, ottenendo il progressivo e parziale scongelamento dei capitali detenuti in occidente. E sempre ad el-Keib la Libia riuscirà a riavviare progressivamente la produzione petrolifera nazionale, i cui volumi di produzione verranno tuttavia limitati dai danni subiti dalle infrastrutture nel corso del conflitto. Timidi successi che evidenzieranno tutte le difficoltà derivanti dal raccogliere la pesantissima eredità di Gheddafi, forse fin troppo pesante per qualsiasi nuovo possibile leader, alle prese con un contesto politico nuovo, tutto da strutturare e soprattutto alle prese con dinamiche mai sperimentate prima.

Uno dei primi partiti ad essere costituiti nella Libia post-Gheddafi sarà il Partito Nazionale Centrista promosso da Ali Tahrouni, convinto assertore di un’impostazione moderata, equidistante alla democrazia islamica e al liberalismo. Seguirà poco dopo la fondazione del Partito della Patria (al-Watan), promosso dal ben noto Abdelhakim Belhadj e da Ali al-Sallabi, un teorico dell’islam salafita, precedentemente incarcerato per aver partecipato all’organizzazione di un attentato contro Gheddafi, che dopo aver lasciato il paese sul finire degli anni novanta si rifugerà in Qatar dove avrà modo di stringere i suoi legami con l’organizzazione dei Fratelli Musulmani, con cui condivideva l’obiettivo della costituzione di una democrazia islamica incentrata sui principi della sharia.

Sebbene il corso post-Gheddafi proseguisse relativamente tranquillo, all’inizio del 2012 l’insurrezione di Bani Walid evidenzierà lo sgretolamento dell’autorità del nuovo governo libico. Nello specifico, la crisi di Bani Walid verrà promossa dalla Brigata 93, una milizia riconducibile alla tribù Warfalla, una delle poche rimaste leale al colonnello Gheddafi, la cui iniziativa verrà innescata dai sistematici soprusi arbitrari perpetrati dalle milizie ribelli. La crisi rientrerà poco dopo, quando il CNT prenderà contatto con i leader tribali locali, legittimando la loro autorità sulla città, raggiungendo un accordo di compromesso a cui seguiranno solo sporadiche schermaglie.

Sempre nel gennaio 2012 si aprirà il dibattito relativo alla legge elettorale, i cui nodi principalmente dibattuti saranno quelli relativi alla partecipazione degli ex-componenti del CNT e degli esuli con doppio passaporto, oltreché la quota di seggi da destinare alle donne. I fermenti politici verranno accompagnati da eventi come l’assalto alla sede del CNT di Bengasi, predisposto da manifestanti che chiedevano l’epurazione dei funzionari pubblici nominati durante l’era Gheddafi, e che in quell’occasione costringeranno Jalil a fuggire precipitosamente dall’edificio. Poco dopo anche il vice-presidente del CNT Abdul Ghoga verrà minacciato in occasione di una manifestazione tenutasi sempre in quel di Bengasi, inducendolo a dimettersi dall’incarico.

Nel febbraio 2012, Mahmood Jibril fonderà l’Alleanza delle Forze Nazionali (AFN), un partito di impostazione liberale, ma aperto ai principi della democrazia islamica. Sempre a febbraio verrà costituito il Movimento Nazionale Popolare Libico (MNPL), una formazione politica promossa da esponenti leali al precedente governo di Gheddafi, di cui si consideravano eredi. Il MNPL verrà guidato dal generale Khuwaildi al-Hamidi, imparentato con Saadi Gheddafi, verrà tuttavia escluso dalle elezioni libiche.

Libia Mahmoud Jobril
( Mahmoud Jibril )

Nel mese di marzo saranno i Fratelli Musulmani a costituire il loro partito, fondando il Partito Giustizia e Sviluppo, affidandone la leadership a Mohamed Sowan, un’ex prigioniero politico di origine turca. Sempre a marzo, altri esponenti islamisti preferiranno strutturarsi sul piano militare, promuovendo su autorizzazione del Ministero della difesa la Forza dello Scudo Libico, un’organizzazione guidata da Mushin al-Libi, un ex-appartenente del LIFG e legato ad al-Qaeda.

L’ELEZIONE DEL CONGRESSO LIBICO

Nel maggio del 2012, lo storico gruppo di oppositori a Gheddafi riuniti nel Fronte Nazionale per la Salvezza della Libia, guidato da Mohammed al-Magariaf, fonderà il Partito del Fronte Nazionale (PFN). Il PNF verrà guidato da Mohammed al-Magariaf, un’economista che nel 1980, a conclusione del suo mandato di ambasciatore libico in India, defezionerà in aperta protesta contro il governo di Gheddafi, contro di cui organizzò un fallimentare attentato nel lontano 1984. Le elezioni del Congresso nazionale libico del luglio 2012 verranno dominate dall’Alleanza delle Forze Nazionali (AFN) di Jibril, a cui andranno il 48% dei consensi, seguito dal Partito Giustizia e Sviluppo, con il 10%. Successivamente alle elezioni il CNT conferirà ufficialmente i propri poteri al Congresso libico, la cui presidenza verrà affidata al leader dell’AFN, Mohammed Magariaf, battendo il suo avversario indipendente Ali Zeidan, un suo vecchio collaboratore all’ambasciata libica in India con cui diserterà nel 1980. Mentre il clima politico libico fermentava, nell’estate del 2012 la “resistenza verde” fedele a Gheddafi consumerà la vendetta nei confronti di Omran Ben Shaaban, il giovane ribelle ritenuto responsabile dell’assassinio del colonnello, sequestrato e ucciso conseguentemente alle torture subite.

UNA TRANSIZIONE DIFFICILE E POLARIZZATA

La sera dell’11 settembre 2012 la milizia islamista Ansar al-Sharia prenderà d’assalto un complesso residenziale di Bengasi occupato da diplomatici statunitensi, che al culmine dello scontro accuseranno l’assassinio del loro ambasciatore. L’attacco verrà condannato dal Premier designato Abushagur, ritenendolo un atto premeditato che l’intelligence statunitense attribuirà ad Ahmed Abu Khattala, il leader della milizia responsabile dell’attacco, precedentemente detenuto nel carcere di Abu Salim su ordine dello stesso Gheddafi che aveva contribuito a rovesciare solo qualche mese prima proprio in cooperazione con gli Stati Uniti. Il giorno successivo, il Congresso di Tripoli designerà ufficialmente Mustafa Abushagur come il successore di el-Keib, uno storico oppositore di Gheddafi residente negli Stati Uniti dove insegnerà ingegneria informatica fino al suo ritorno in Libia nel 2011. Abushagur riuscirà a raccogliere un consenso di poco superiore a quello del suo avversario Mahmoud Jibril, ma ciononostante il suo governo non verrà mai approvato dal Congresso, decidendo così di recedere dal formare il nuovo esecutivo. Governo che invece riuscirà a formare nel mese di novembre Ali Zeidan, il candidato designato dal Partito per la Giustizia e Sviluppo, su cui convergerà anche l’AFN.

Il 2013 si aprirà con l’attentato al Presidente del Congresso Mohammed el-Magariaf, scampato ad un assalto nei pressi della città di Sabha, culminato in uno scontro armato durato alcune ore dinnanzi all’albergo in cui stava soggiornando. Pochi mesi dopo, a maggio, el-Magariaf rassegnerà le dimissioni, prendendo atto della legge che le fazioni islamiste promuoveranno al fine di precludere l’esercizio delle funzioni politiche ai funzionari nominati durante l’era Gheddafi. Carica che il Congresso assegnerà a Nouri Abusahmain, un rappresentante berbero indipendente, ma ritenuto contiguo ai Fratelli Musulmani. Parallelamente al suo ruolo istituzionale, Abusahmain sarà tra i promotori della “Sala Operativa dei Rivoluzionari in Libia(LROR), un’organizzazione che riunirà le milizie che riconoscevano la sua leadership, tra cui spiccheranno quelle a matrice islamista. Sotto la sua presidenza il Congresso imporrà numerosi precetti giuridici derivanti dalla tradizione giuridica islamica, a cominciare dall’obbligo per le donne di indossare l’hijab. Con questa serie di iniziative, spesso rafforzate dall’azione intimidatrice delle milizie più radicali, le fazioni islamiste del Congresso proveranno a mettere sotto scacco le forze liberali, accusandole di essere in larga parte espressione del vecchio governo di Gheddafi.

La crescente contrapposizione tra le fazioni islamiste e quelle liberali continuerà a crescere fino all’ottobre del 2013, quando il Premier Zaidan verrà sequestrato per alcune ore dal LROR, che lo accusava di aver permesso agli Stati Uniti di catturare Anal al-Liby, un sospetto terrorista accusato dalle autorità americane di essere legato ad al-Qaida. In quel frangente, gli Stati Uniti giustificheranno la cattura in Libia di al-Liby rivendicando proprio l’autorizzazione del governo di Zaidan che invece si riterrà all’oscuro dell’operazione americana contestategli un po’ da tutte le forze politiche islamiste del paese, a cominciare dal Partito Giustizia e Sviluppo, che tuttavia non riuscirà a sfiduciarlo al Congresso. Evento controverso che destabilizzerà ulteriormente il clima di sfiducia che da lì a qualche mese porterà alle elezioni che avrebbero portato alla passaggio delle funzioni legislative dal Congresso alla Camera dei Rappresentanti, di cui avremo modo di trattare nella prossima parte di questo focus sulla Libia.

Libia Ali Zeidan
( Il premier libico Ali Zeidan )

CONCLUSIONI

La piena reintegrazione della Libia all’interno della comunità internazionale e le prospettive di sviluppo economico faranno abbassare la guardia a Muammar Gheddafi, esponendolo a quel rischio destabilizzazione che aveva temuto per tre decenni. E al netto delle premesse, dialogare con l’occidente per evitare la parabola di Saddam Hussein non servirà a sottrarlo al suo stesso destino. Così, mentre il leader libico stringeva accordi commerciali con i leader occidentali, questi ultimi continuavano a covare l’antico proposito di eliminarlo al momento ritenuto più propizio. Fino a che punto l’occidente avesse previsto e patrocinato la variante libica della primavera araba che smantellerà il paese nord africano non è dato sapersi, ma quel che è certo è che il ruolo di sponsor della rivolta ricoperto da alcuni importanti paesi risulterà sospettosamente tempestivo e risoluto.

A differenza di Egitto e Tunisia, più che da rivendicazioni economiche, il governo libico verrà travolto da dinamiche di natura socio-politiche proprio durante la fase riformista patrocinata dal figlio del colonnello, Saif al-Islam Gheddafi, e in una fase sostenuto sviluppo economico. E paradossalmente, il nucleo della rivolta libica sarà costituito da quel movimento islamista beneficiato dal corso riformista di Saif al-Islam Gheddafi. Movimento tradizionalmente radicato nella regione orientale della Cirenaica, dove l’influenza della Senussia era stata progressivamente rimpiazzata dall’islamismo politico teorizzato dallo stesso movimento dei Fratelli Musulmani protagonista del rovesciamento del governo di Mubarak nel vicino Egitto al culmine della versione locale della cosiddetta “primavera araba”. Fermenti che in Libia incontreranno, al pari dell’Egitto, il determinante supporto mediatico delle tv panarabe di proprietà delle monarchie del golfo persico, responsabili della divulgazione di servizi basati su notizie non sempre opportunamente verificate, inframezzate da alcune clamorose notizie false, contribuendo in modo subdolo all’esasperazione del clima socio-politico libico, trascinandolo fino al punto di non ritorno. Condotta mediatica che influenzerà moltissimo le opinioni pubbliche mondiali, soprattutto in occidente, inducendole a solidarizzare con la causa ribelle, sorvolando sistematicamente sulle loro radici politiche islamiste. L’operato dei media panarabi si configurerà come una raffinata strategia con cui le petromonarchie del golfo persico riusciranno a destabilizzare quello che si configurava come un importante paese concorrente, per di più governato da un loro storico avversario, contro di cui, al netto delle riconciliazioni di facciata, continuavano a covare un profondo rancore.

Il successo dell’insurrezione libica sarà dovuto certamente ad una combinazione di fattori, molti dei quali esterni, tra di cui il ben noto supporto mediatico. Ma determinanti nelle prime fasi della rivolta saranno la rapida mobilitazione delle prime milizie armate e le dimissioni di importanti esponenti governativi come l’influentissimo ministro degli interni Younis e quello della giustizia Jalil. Sviluppi politici che getteranno scompiglio tra le varie fazioni tribali, aprendo un solco tra quelle risolutamente leali a quell’ordine trentennale garantito da Gheddafi e quelle che invece aspiravano a sgretolarlo per trarne vantaggio. Incertezze e opportunità che almeno inizialmente cercherà di sfruttare a proprio esclusivo vantaggio personale Saif al-Islam Gheddafi, tentando di accreditarsi come l’unico soggetto in grado di garantire un processo di transizione politica a incanalare su quel corso moderato e riformista di cui si era fatto fautore nel corso degli anni precedenti, nonostante la ritrosia del leader libico. Piani che tuttavia il figlio del colonnello accantonerà dopo aver compreso la reale regia che animava la rivolta, risintonizzandosi sulle stesse frequenze del padre. In quella circostanza Saif prenderà bruscamente atto che quella che sembrava una rivolta spontanea, in realtà non lo era per nulla, come dimostrerà la rapida costituzione del CNT. In quel frangente, Saif avrà modo di rimpiangere lo slancio riformista con cui si farà promotore della necessità di allentare la morsa sulle forze di opposizione, comprese quelle riconducibili a quel movimento islamista che si apprestava a demolire i pilastri dell’ordine centralizzato strutturati da suo padre nel corso di tre decenni. Errori di valutazione simili a quelli che il figlio del colonnello comprenderà di aver commesso fidandosi di quei partner occidentali che dopo averlo acclamato quale futuro leader riformista, inizieranno a sostenere attivamente il fronte ribelle senza farsi troppe domande sui loro effettivi propositi politici. L’illusione del figlio di Gheddafi sarà seconda solo a quella degli eredi della famiglia reale Senussi, che dopo aver sostenuto apertamente i ribelli verrà praticamente ignorata da questi ultimi, per nulla intenzionati a tornare sotto l’antica monarchia.

Quella che si inaugurerà come una rivolta degenererà rapidamente in una guerra civile ad alta intensità, e contraddistinta da inauditi livelli di ferocia mista a fanatismo religioso. Contrapposizione che dopo l’iniziale sbandamento, le forze armante libiche rimaste fedeli al governo riusciranno ad arginare, respingendo progressivamente l’avanzata delle milizie ribelli, il cui schema di combattimento ricalcherà quello delle forze chadiane sostenute dalla Francia sul finire degli anni ottanta, soprattutto per l’impiego tattico dei pick-up armati ben nota ad ex-ufficiali libici come Khalifa Haftar. E non sarà certo un caso se tra gli sponsor dei ribelli spiccasse soprattutto la Francia presieduta da quel Sarkozy che con Muammar Gheddafi costruirà un rapporto privilegiato simile a quello strutturato con l’Italia di Berlusconi. E sarà proprio il governo francese a spendersi di più per l’approvazione della risoluzione con cui l’ONU autorizzerà la controversa no fly zone che nei fatti si configurerà come supporto esterno al fronte ribelle, e non come una forza di polizia aerea propedeutica al raggiungimento di un cessate il fuoco. Il ruolo della Francia sarà quello più evidente, anche se probabilmente ad essere determinante sarà l’intervento con cui il vice-presidente Joe Biden riuscirà a convincere l’allora presidente russo Medvedev a non apporre il diritto di veto al Consiglio di Sicurezza ONU, dove si asterrà insieme alla Cina, paese che pur aveva non trascurabili interessi commerciali in Libia. Il resto è storia. La storia di un governo di un paese nordafricano rovesciato dalla coalizione militare più grande dalla fine della seconda guerra mondiale, e di cui esponenti di punta verranno uccisi e brutalmente torturati senza alcun processo.

La liberazione o disintegrazione della Libia di Gheddafi, a seconda dei punti di vista, non sarà un atto esclusivamente libico, giacché coinciderà con la demolizione del principale pilastro mediterraneo della politica estera italiana, la cui responsabilità va attribuita, a viva memoria dei posteri, al governo presieduto da Silvio Berlusconi, coadiuvato in questa ingrata missione da ogni singolo esponente della sua coalizione di governo, che nei fatti si rivelerà ben peggiore dell’opposizione con cui condividerà una decisione da cui deriveranno conseguenze nocive all’interesse nazionale italiano, contribuendo a degradare ulteriormente la credibilità internazionale del paese. E per quanto questa sia un’altra storia, non è possibile eludere la necessità di evidenziare a chi legge le responsabilità politiche della classe dirigente italiana dell’epoca nel determinare il collasso di una nazione fondamentale per la sicurezza strategica italiana, che ad un attenta analisi va contro ogni logica strategica, eccezion fatta per quella che rimanda all’acritica subordinazione di direttive imposte di paesi terzi. Di certo, senza il ruolo logistico dell’Italia, la sostenibilità dell’intervento militare con cui le aviazioni occidentali spianeranno la strada al fronte ribelle sarebbe stata decisamente più complicata, probabilmente troppo per essere solo ipotizzata. E se in ogni caso sarebbe stata verosimilmente inutile, una simile iniziativa sarebbe stata comunque un prezzo che una classe dirigente degna di questo nome avrebbe potuto imporre a chi le chiedeva di vanificare i propri interessi strategici più prossimi senza alcuna garanzia futura di poterli recuperare. Ma come già detto, questa è un’altra storia, e con i se si possono costruire castelli filosofici che è meglio relegare al campo dell’immaginazione.

( Berlusconi esulta con Gheddafi prima della guerra )

Di Muammar Gheddafi è difficile non avere un giudizio severo per come ha governato il suo paese, per i suoi trascorsi storici e per come si approcciato alla rivolta che porterà alla fine del suo governo trentennale, ma di certo non lo si potrà accusare di aver tradito se stesso, scegliendo di combattere e morire in quel deserto di Sirte in cui ha iniziato la sua avventura politica, riservando per se stesso la seconda opportunità di un esilio all’estero che ha garantito a parte della sua famiglia. Amore per la propria famiglia che non risulterà secondo a quello del paese che ha contribuito a rendere qualcosa di ben più rilevante che uno “scatolone di sabbia”, preservandone la ricchezza delle infrastrutture idriche e, soprattutto, astenendosi dal dare alle fiamme ai pozzi di petrolio come fatto da Saddam Hussein in Iraq, non negando nemmeno ai suoi nemici mortali la possibilità di poter rilanciare il paese, avvalendosi delle sue preziose riserve energetiche, mai utili come oggi, soprattutto per paesi come l’Italia, per le considerazioni che abbiamo precedentemente accennato.

La Libia post-Gheddafi dal 2011 è un paese distrutto, ma comunque recuperabile con un minimo di lungimiranza che all’indomani della fine del colonnello sembrerà alla porta dalla classe dirigente forgiata durante l’era del colonnello, integrata da esponenti qualificati rimpatriati dopo un lungo esilio in occidente. Ma l’apparente concordia verrà progressivamente sgretolata dall’inconciliabile conflitto di interessi sorto tra la vecchia classe dirigente riciclatasi all’interno del CNT e le fazioni islamiste protagoniste della vittoria sul campo di battaglia. Contrapposizione politica che degenererà inesorabilmente, aprendo una seconda e inattesa fase della guerra civile libica, il cui movente, evidentemente, andava ben oltre l’ingombrante figura di Muammar Gheddafi. Ad ogni modo, di queste dinamiche avremo modo di trattare approfonditamente nella sesta e ultima parte di questo focus sulla Libia.