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LA SIRIA E LE ARMI CHIMICHE

Approfondiamo la contesa sulle armi chimiche in Siria 

Dopo aver dedicato 4 articoli alla conoscenza della realtà storico-politica siriana ( Siria 1; Siria 2; Siria 3; Siria 4), e altri 4 alla conoscenza della guerra civile siriana ( Siria 5; Siria 6; Siria 7; Siria 8 ), più ai rapporti internazionali con Russia e USA, proveremo ad analizzare la controversa relazione tra Siria ed armi chimiche.

Come è noto, la crisi siriana ha prodotto un numero esorbitante di vittime, ma per qualche caso, i mass-media e alcuni paesi occidentali sembrano particolarmente sensibili alle vittime delle armi chimiche che, a dispetto del clamore suscitato tra l’opinione pubblica ,uccidono molto meno delle classiche armi convenzionali. L’anomala attenzione per questa tipologia di armi, per quanto palesemente strumentale, riesce a catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica, fornendogli un motivo per indignarsi in modo diverso dal solito, instillando nella percezione pubblica l’idea che una vittima di un attacco chimico sia in qualche modo più importante di una vittima di una “bomba convenzionale” o di un volgare kalashnikov. Per qualche strano motivo, l’uso di armi chimiche sembra essere divenuto un movente più che idoneo a giustificare l’uso della forza internazionale, anche a costo di scavalcare l’ordinamento giuridico internazionale, che subordina qualsiasi azione militare ad uno specifico mandato del Consiglio di Sicurezza ONU.

LA DISCIPLINA INTERNAZIONALE SULLE ARMI CHIMICHE

Le armi chimiche sono armi letali che sviluppano indiscriminatamente i loro effetti su larga scala, come dimostrato nel corso della Prima Guerra Mondiale, quando le principali potenze mondiali dell’epoca si convinsero a metterle al bando, sottoscrivendo il Protocollo di Ginevra del 1925, con cui si vietò l’uso di tale tipologia di armi. Il divieto fu rispettato persino durante la Seconda Guerra Mondiale, anche se Germania, Regno Unito e Stati Uniti non esitarono a stoccare nei loro arsenali grandi quantitativi di queste armi, alcuni dei quali vennero danneggiati nel corso della guerra, come nel caso del carico di armi chimiche americane imbarcate su alcune navi cargo ormeggiate nei pressi di Bari, dove finirono per essere distrutte da un raid preventivo operato dagli aerei della Lutwaffe, provocando ingenti danni collaterali che si riverberarono lungo la costa italiana, causando numerose vittime tra civili e militari. Ad ogni modo, il divieto resse per tutto il 2° dopoguerra, fino alla Guerra Iran-Iraq, quando gli iracheni ricorsero in più di un occasione a questa tipologia d’arma, anche se alcuni critici considerano anche il massiccio ricorso all’agente orange da parte americana nel corso del conflitto in Vietnam. Va infatti considerato che il concetto di “arma chimica” è classificato in modo piuttosto vago nel diritto internazionale, ad esempio, secondo alcuni indirizzi, persino i gas lacrimogeni possono essere considerati un’arma chimica, pur essendo generalmente tollerati se impiegati nel corso di operazioni antisommossa. Altre controversie tecniche finalizzate alla classificazione di questa tipologia d’arma si sono sviluppate nel tempo anche in merito alla messa al bando di agenti chimici come il cloro o il fosforo, che alla luce della loro larga applicazione civile non sono state classificate specificatamente come vere e proprie armi chimiche, alimentando un dibattito tutt’oggi aperto, soprattutto per via del loro vasto ambito di applicazione industriale. Nello specifico, l’uso di fosforo bianco e l’uranio impoverito, ampiamente utilizzato in operazioni militari da paesi come USA e Israele, per quanto letale non viene classificato come arma chimica vietata, un po’ come oggi in Siria con il presunto uso di armi a base di cloro.

Solo nel 1993, si giungerà ad una disciplina internazionale definitiva, con la stipula della “Convenzione sulle Armi Chimiche”, con cui si vietò categoricamente lo sviluppo, la produzione, lo stoccaggio e l’uso di tali armi, imponendone la distruzione laddove presenti, sotto la stretta vigilanza dell’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPCW). Addirittura, dal 1998, il Tribunale dell’Aia classifica l’uso di armi chimiche come crimine di guerra. Ad oggi, gli unici paesi che non hanno sottoscritto la Convezione sulle Armi Chimiche sono la Corea del Nord, l’Egitto ed il Sud Sudan, mentre Israele, pur avendo firmato, non ha ancora proceduto con la ratifica. Secondo l’OPCW, nel mondo sono state prodotte più di 72.000 tonnellate di armi chimiche, di cui il 95% è stato certificato come distrutto nel corso degli ultimi anni. Come per le armi nucleari, USA e Russia si sono ritrovati in possesso dei due principali arsenali chimici mondiali, che comunque si sono impegnati a smantellare nei prossimi anni. Per quanto concerne la Russia, sembra che abbia completato il processo di distruzione prima della fine dell’anno scorso, mentre gli americani hanno garantito di distruggere il 10% residuo entro il 2023.

L’ARSENALE CHIMICO SIRIANO

La Siria ha iniziato a sviluppare il proprio arsenale chimico nei primi anni 70, per iniziativa del governo baathista guidato da Salah Jadid, servendosi di supporto tecnico sovietico ed egiziano. Lo sviluppo dell’arsenale chimico fu il tentativo dell’establishment siriano di dotarsi di un apparato di deterrenza credibile da contrapporre strategicamente all’arsenale nucleare che gli israeliani sviluppavano sottotraccia nel deserto del Negev. Nei piani siriani, l’arsenale chimico doveva consentire l’armamento di un imprecisato numero di testate da montare all’occorrenza su di missili tattici o balistici, stoccati nelle province centro-settentrionali della Siria, e pronti per essere lanciati in caso di necessità contro il territorio israeliano in caso di escalation su larga scala, fungendo da apparato di deterrenza non nucleare. Le armi chimiche avrebbero anche permesso ai siriani di respingere eventuali avanzate militari israeliane sul Golan, contribuendo a strutturare uno status-quo incrinato solo dai recenti sviluppi della crisi siriana. Ad ogni modo, se Israele tutt’oggi sostiene ufficialmente di non essere in possesso di armi nucleari, anche la Siria ha mantenuto il più stretto riserbo sul proprio arsenale chimico, accreditato di un quantitativo prossimo alle 1.000 tonnellate di iprite, Sarin e VX, parliamo del 3° arsenale chimico mondiale dopo quello di Russia e USA.

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( Missile Scud armabile con testata chimica )

LA CRISI CHIMICA NELLA CRISI SIRIANA

Durante le prime fasi della crisi siriana, il governo siriano ha escluso categoricamente il ricorso al proprio arsenale chimico, stoccandolo in alcuni centri militari nei pressi della costa, laddove sorgono le principali roccaforti alawite fedeli al presidente Assad, dove il rischio di un’insurrezione ribelle risultava relativamente marginale. A partire dal 2013, sui media cominciarono a rincorrersi voci non confermate di presunti attacchi chimici perpetrati dall’esercito siriano ai danni dei ribelli islamisti arroccati in alcuni quartieri di Aleppo e Damasco, tuttavia, queste denunce non troveranno conferme oggettive indipendenti, contribuendo solo ad esasperare il clima mediatico, catalizzando “l’attenzione interessata” degli sponsor occidentali delle milizie ribelli, che così cominciarono a rendersi rapidamente conto dall’efficacia del potenziale mediatico derivante dalla minaccia costituita da un possibile attacco chimico.

La svolta sull’uso di armi chimiche all’interno della guerra civile siriana si registrerà nel corso dell’estate del 2013, quando nei sobborghi damasceni della Ghouta, occupati dai ribelli islamisti, si registrerà un controverso attacco chimico che provocherà numerose vittime tra miliziani e civili. In quell’occasione, i ribelli addebitarono immediatamente le responsabilità dell’attacco all’esercito siriano, suscitando la reazione sdegnata del governo di Damasco, che respinse ogni addebito alle formazioni terroristiche jihadiste integrate alla coalizione ribelle presente a Ghouta. Malgrado la mancanza di prove certe con cui risalire oggettivamente alla responsabilità dell’attacco, Stati Uniti ed Europa diedero credito alla versione dei ribelli islamisti, addebitando ogni responsabilità al governo di Assad che, invece, trovava il sostegno dei suoi alleati russi e iraniani, convinti che l’attacco fosse in realtà un “false flag” finalizzato a fornire all’opinione pubblica occidentale un motivo per giustificare un intervento militare a sostegno dei ribelli, sulla falsa riga di quello attuato solo qualche mese prima in Libia, dove riusciranno a rovesciare il legittimo governo, contribuendo in modo determinante al barbaro assassinio a sangue freddo del leader libico Muammar Gheddafi.

LA SOLUZIONE DIPLOMATICA DELLA CRISI

Le schermaglie mediatiche e diplomatiche circa le responsabilità dell’attacco chimico siriano, indussero l’amministrazione americana Obama a richiedere al Consiglio di Sicurezza ONU una risoluzione che autorizzasse un intervento militare contro il governo siriano, tuttavia impedito dai reiterati veti posti da Cina e Russia. Lo stallo diplomatico venne risolto qualche settimana dopo in Russia, in occasione del G20, quando il presidente americano Obama e quello russo Putin, concordarono una soluzione che prevedesse lo smantellamento dell’arsenale chimico siriano, in collaborazione con lo stesso governo di Damasco, che suo malgrado, si ritrovò costretto a privarsi del suo unico strumento di deterrenza strategica contro Israele. L’intesa raggiunta dai due leader, venne certificata dalla Risoluzione 2118 del Consiglio di Sicurezza ONU, a cui seguì la rapida adesione della Siria alla Convenzione sulle Armi Chimiche, concordando con l’OPCW l’iter di smantellamento del suo vasto arsenale chimico.

Parallelamente a questi sviluppi, la Russia esortò più volte la necessità di imporre il rispetto della Risoluzione 2118 anche ai ribelli, al fine di evitare che tali armi possano finire in mano ad organizzazione terroristiche. Il governo siriano si conformò rapidamente alle disposizioni imposte dal OPCW, distruggendo le munizioni chimiche esistenti e gli strumenti necessarie al loro assemblaggio, compresi gli importati sistemi di attivazione degli elementi catalizzatori delle sostanze tossiche, senza di cui queste sostanze risultano generalmente inerti. Il governo siriano garantì la massima cooperazione alle autorità internazionali, agevolando l’iter di distruzione del proprio arsenale chimico, rallentato solo nelle fasi di spostamento logistico dalle iniziative militari ribelli contro i convogli blindati. Malgrado i dubbi espressi dagli USA circa la cooperazione siriana nello smantellare le proprie armi chimiche, l’OPCW ha espresso soddisfazione, sostenendo che i tracciamenti satellitari avrebbero agevolmente rilevato eventuali anomalie inerenti il percorso dei convogli.

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( Tecnici alle prese con munizioni chimiche )

Se gli stock chimici controllati dal governo siriano vennero rapidamente identificati dall’OPCW, lo stesso non poté dirsi per quelli situati nelle aree controllate dai ribelli islamisti, che da parte loro negarono la presenza di tali armi, nonostante il governo avesse comunicato che una minima parte del loro arsenale si trovasse all’interno di basi localizzate all’interno dei territori da loro controllati. Ad ogni modo, una volta preso in carico l’arsenale chimico siriano, l’OPCW ne organizzò l’invio degli elementi più letali (Sarin, Iprite, VX) in Italia, dove vennero trasbordate su di un’apposita nave militare USA adibita alla loro distruzione in acque internazionali, avvalendosi di un sofistica sistema di idrolisi. Il resto delle armi chimiche meno letali venne distrutto progressivamente nel corso del 2014 all’interno di apposite strutture situate tra Stati Uniti, Finlandia e Regno Unito, sempre sotto la vigilanza dell’OPCW, che certificò il buon fine del processo di distruzione dell’intero arsenale chimico siriano.

LE “NUOVE CRISI CHIMICHE” 

Lo smantellamento dell’arsenale chimico siriano sotto l’autorevole vigilanza dell’OPCW placò provvisoriamente il clima internazionale, ma non le recriminazione dei ribelli, continuando a denunciare l’uso di armi chimiche da parte dell’esercito siriano, accusandolo di aver sostituito il sarin con il cloro, una sostanza non espressamente vietata dalla Convenzione sulle Armi Chimiche, sulla cui classificazione, come già accennato, la giurisprudenza internazionale dibatte tutt’oggi. La questione relativa al presunto uso di cloro, rilanciò nuovamente la “retorica chimica” promossa dai ribelli islamisti, e ripresa acriticamente dai mass-media occidentali, che non esitarono a mettere in dubbio persino l’efficacia dell’operazioni di distruzione coordinate dall’OPCW, ipotizzando la possibilità che il governo siriano sia riuscito in qualche modo ad occultare all’organizzazione parte del suo arsenale chimico. In occidente le certificazioni dell’OPCW vennero progressivamente screditate, subordinandole alle presunte prove confezionate dall’organizzazione umanitaria ribelle dei “Caschi Bianchi“, fatte pervenire dal sedicente Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (con sede a Londra), un’organizzazione che al dispetto del nome altisonante, si configurava come un sito internet gestito da tal Rami Abudlrhaman, un siriano di confessione sunnita residente nel Regno Unito, da dove diffonde, a titolo personale, propaganda politica filo ribelle, spacciandola per le posizioni di un organizzazione umanitaria indipendente e superpartes.

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( Caschi Bianchi intenti a festeggiare con i terroristi islamisti di al-Qaida )

La situazione precipitò nuovamente nel 2017, quando le milizie islamiste scacciate dalla città di Aleppo tenteranno di sabotare l’intesa raggiunta tra i loro vecchi sponsor turchi e la Russia nel nord del paese, organizzando a sud della sacca di Idlib un massiccio attacco contro le postazioni dell’esercito siriano poste a difesa della città di Hama. Malgrado l’effetto sorpresa, loffensiva islamista si arenerà a distanza di qualche giorno, rischiando addirittura di essere ribaltata sul fronte dalla poderosa reazione dell’esercito siriano. La fallimentare offensiva ribelle, guidata dalle milizie qaidiste di al-Nusra, finì per mettere a repentaglio il controllo della sacca ribelle di Idlib, prospettando una rocambolesca ritirata disordinata che rischiava seriamente di proiettare l’esercito a due passi dalla loro principale roccaforte. E proprio mentre la situazione precipitava, volgendo a svantaggio dei ribelli, che si registrò un nuovo controverso attacco chimico dietro le linee ribelli, all’interno di un piccolo villaggio situato dietro la linea del fronte di Hama, causando numerose vittime civili.

Le responsabilità dell’attacco chimico riaprirono il contenzioso tra il governo e la coalizione ribelle islamista, contribuendo a polarizzare nuovamente gli indirizzi della comunità internazionale tra chi come gli USA credeva alle tesi islamiste sostenendo la colpevolezza del governo siriano, e chi come i russi, al contrario, denunciava l’ennesimo tentativo di false flag finalizzato a coinvolgere l’occidente nel conflitto siriano, proprio nel momento in cui i ribelli siriani cominciavano a collezionare sconfitte militari via via sempre più pesanti. Malgrado la mancanza di prove oggettive certe ed indipendenti sulle responsabilità dell’attacco chimico, il clamore mediatico indurrà il neo-presidente americano Donald Trump a violare il diritto internazionale, scavalcando il veto della Russia all’interno del Consiglio di Sicurezza ONU, ordinando un raid missilistico contro le basi militari considerate coinvolte nell’organizzazione dell’attacco chimico in questione, azione che obbligherà l’esercito siriano a bloccare l’avanzata verso Idlib, permettendo così ai ribelli islamisti rinforzare le proprie posizioni, prossime a cedere sotto i colpi della controffensiva siriana.

L’ULTIMA “CRISI CHIMICA” 

A distanza di un anno dall’attacco americano alle basi siriane, i ribelli islamisti si ritroveranno nuovamente alle corde, soprattutto all’interno della sacca damascena di Ghouta, sgretolatesi dinnanzi alle pressione militare esercitata dall’esercito siriano guidato dalle forze speciali delle Tiger Forces. La rapida e relativamente incruenta capitolazione delle difese islamiste assediate nella capitale siriana sembrò prospettare la fine della crisi siriana, dopo 7 anni di guerra civile. Tuttavia, qualche giorno fa, quando gli ultimi ribelli di Jaish al-Islam (Esercito dell’Islam) si preparavano ad abbandonare il sobborgo di Douma, trasferendosi verso Idlib a bordo di convogli concordati con il governo siriano, si registrerà un nuovo controverso attacco chimico che riesaspererà nuovamente il clima internazionale. Infatti, il presunto attacco contestato è stato preceduto da una serie di “denunce preventive” da parte del governo siriano e dello stato maggiore russo, secondo cui i ribelli stavano preparando una nuova provocazione chimica che sembrava assecondare le minacce che da qualche settimana i governi di USA e Francia lanciavano contro il governo siriano, paventando il loro intervento militare unilaterale in caso di un nuovo attacco chimico, che nel giro di qualche giorno si concretizzerà provvidenzialmente proprio durante le fasi finali dell’evacuazione dei terroristi dalla sacca damascena di Ghouta, suscitando più di qualche dubbio sulla tempistica dell’evento, che diede l’impressione si trattasse di uno sviluppo in qualche modo voluto, ricercato ed ottenuto.

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( Bombardiere supersonico USA B1-B utilizzato nei raid in Siria )

Infatti, risulta piuttosto inverosimile ipotizzare che l’esercito siriano, oramai prossimo alla riconquista di Ghouta, osasse ricorrere ad armi chimiche, correndo il rischio di scatenare la rappresaglia franco-americana preannunciata a più riprese fino a qualche giorno prima del presunto attacco. Così come anomalo risulterebbe predisporre un attacco di questo tipo proprio mentre i ribelli stavano già iniziando ad evacuare la zona interessata sugli appositi convogli diretti verso l’ultima roccaforte ribelle di Idlib. Ad ogni modo, nonostante la solita mancanza di prove oggettive e indipendenti, gli Stati Unti hanno deciso di violare nuovamente il diritto internazionale, coinvolgendo Francia e Regno Unito nei raid missilistici contro i presunti depositi chimici siriani, senza attendere le rilevazioni dell’OPCW, che a questo punto secondo la tesi franco-americana, avrebbe fallito nel certificare l’effettivo smantellamento delle armi chimiche, a cui paradossalmente gli stessi americani avevano preso parte appena 2 anni fa, mettendo a disposizione mezzi e strutture propri.

TRA LOGICA E CREDIBILITA’  

La tesi americana, qualora venisse avvalorata da prove oggettive certe, sgretolerebbe la credibilità internazionale dell’OPCW, che comunque è nel frattempo giunta in Siria per fare i primi rilevamenti a Douma, dove, intanto, i russi sostengono di non aver trovato segni compatibili con l’attacco chimico denunciato dai ribelli, avanzando l’ipotesi che si sia trattato dell’ennesima messa in scena mediatica, a cui la sedicente organizzazione umanitaria dei Caschi Bianchi” ci ha purtroppo abituati, trovando un quantomeno sospetto credito tra i mass-media occidentali. Le incongruenze relative al presunto attacco chimico, sommate alle reiterate manipolazioni mediatiche predisposte dai “Caschi Bianchi”, che nel frattempo si sono smaterializzati insieme alle milizie di Jaish al-Islam, sembrano avvalorare la tesi russa, di un loro ultimo disperato tentativo di coinvolgere i loro “sponsor occidentali” nella crisi siriana. Credere ai report confezionati dai Caschi Bianchi risulta difficile, soprattutto perché non si può credere che dei soccorritori agiscano in presenza di agenti nervini, senza indossare appositi indumenti isolanti, ma tali precisazioni valgono solo per chi è all’oscuro delle loro prestazioni, spesso compatibili con gli standard di certe compagnie teatrali di quart’ordine come dimostrano alcuni video presenti sulla rete.

Altra importante considerazione sulla quale vale la pena riflettere è l’anomala predisposizione, oltre che il senso strategico, dell’esercito siriano ad utilizzare le proprie armi chimiche contro i civili. Infatti, a giudicare dalle riprese fatte pervenire dai ribelli, risulta quantomeno arduo riuscire ad individuare tra le vittime i soliti energumeni dalla folta barba, che teoricamente dovrebbero essere gli obiettivi prediletti dai militari. Altrettanto anomalo risulta anche il mancato uso delle armi chimiche da parte dell’esercito siriano contro i terroristi dell’Isis, su cui probabilmente nessuno avrebbe avuto nulla da ridere. Infatti, se l’uso di tali armi fosse una prassi consolidata dei militari siriani, come sostengono molti media, non si comprenderebbe il perché si siano lesinati ad usarle durante le operazioni contro i miliziani del califfato, quando, sempre attenendoci alla vulgata mediatica, non si sono fatti scrupolo ad utilizzarle in aree urbane a netta prevalenza civile.

USA ONU ARMI PROVE ARMI CHIMICHE
( La delegazione USA mentre esibisce prove false all’ONU )

Quello che poi fa più specie è constatare come due paesi colpiti a più riprese dal terrorismo islamista come gli Stati Uniti e la Francia, abbiano potuto dare credito a formazioni ribelli che condividono la forma-mentis dei terroristi islamisti che hanno bersagliato le loro città, intervenendo addirittura contro il governo siriano per vendicarne la sconfitta, non curandosi di scardinare persino l’ordine giuridico internazionale. L’interventismo militare occidentale risulta particolarmente anomalo anche perché promosso da un leader contraddistinto da una scarsa simpatia per il mondo islamico come Donald Trump, che non ha esitato a contraddire i suoi propositi di limitare l’impiego delle forze armate americane, dando credito alle denunce di una formazione nota come l’Esercito dell’Islam (Jaish al-Islam), predisponendo un azione militare che ha dato l’impressione di essere una sorta di vendetta strategica. Intanto, parallelamente alla retorica umanitaria filo-jihadista, comincia ad avanzare il dubbio che gli Stati Uniti abbiano voluto replicare il copione del 2003, quando dinnanzi al Consiglio di Sicurezza ONU la delegazione americana non esitò ad ingannare la comunità internazionale, presentando false prove con cui giustificarono l’aggressione illegale all’Iraq, culminata con il rovesciamento del legittimo governo di Saddam Hussein. Se tali dubbi siano verosimili o meno, non ci resta altro che seguire con un minimo di senso critico gli sviluppi della cronaca quotidiana.

CONCLUSIONI

In conclusione, considerando gli esiti strategici della crisi chimica, se gli USA non sono riusciti ad alterare l’esito della guerra civile con quelli che, alla luce delle conseguenze sul campo, si potrebbero tranquillamente configurare come “raid farsa”, possono comunque ritenersi soddisfatti dall’esito delle loro iniziative diplomatiche, che sono riuscite a privare i siriani del loro arsenale chimico, con cui hanno storicamente controbilanciato l’arsenale nucleare di Israele, che di conseguenza oggi si ritrova in condizione di poter fronteggiare un’escalation militare su larga scala contro la Siria o il Libano, senza correre il pericolo di dover subire quella rappresaglia chimica che li ha frenati per più di 30 anni, essendo venuto meno lo status-quo strategico che ha tenuto congelato il fronte del Golan. Va infine considerata la possibilità che Israele possieda anche un certo quantitativo di armi chimiche, tesi suggerita dalla mancata ratifica della Convenzione sulle Armi Chimiche, che probabilmente gli israeliani possiedono occultamente, al pari delle proprie testate nucleari, per fini di deterrenza strategica contro l’Egitto, che come loro non ha voluto conformarsi alla convenzione, lasciando intendere il possesso di un arsenale chimico nazionale di deterrenza, simile a quello siriano.

Ritornando sulla crisi chimica siriana, risulta arduo per chiunque riuscire a ricondurre le responsabilità degli attacchi chimici a dei soggetti precisi, data la difficoltà nel reperire dati oggettivi certi rilevati da fonti indipendenti e, soprattutto, diffuse senza le distorsioni politiche che caratterizzano gli apparati mediatici occidentali, che sebbene formalmente liberi ed indipendenti, oggi più di ieri, risultano sempre più appiattiti sulle posizioni dei rispettivi governi che, al netto della loro retorica umanitaria, non sembrano affatto disposti a subordinare le proprie ambizioni geopolitiche alle esigenze di stabilità internazionale. D’altronde, si dice che in guerra la prima vittima a cadere sia proprio la verità, e la crisi siriana non sembra fare eccezione, configurandosi come una guerra ibrida, dove ai tradizionali militari si affiancano insospettabili specialisti della disinformazione, il cui obiettivo è quello di sgretolare la credibilità del nemico, erodendone le basi di consenso.

Media main stream siria false flag propaganda
( Evoluzione delle armi impiegate in guerra )

In mancanza di dati oggettivi certi e imparziali, siamo costretti a scegliere a chi credere in base a ciò che traspare dalla fitta cortina di propaganda innalzata dai protagonisti coinvolti a vario titolo nella crisi siriana. Si può scegliere di credere che il governo siriano, oramai prossimo alla ripristino del proprio controllo sul paese, abbia scelto di fare ricorso all’uso di armi chimiche ipoteticamente sfuggite al minuzioso controllo degli ispettori dell’OPCW, provocando vittime che inevitabilmente hanno richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica delle potenze occidentali, fornendogli quel casus belli ricercato a più riprese nel corso della guerra civile siriana. In alternativa, si può credere che i ribelli islamisti, oramai prossimi alla sconfitta sul campo, abbiano deciso di organizzare un attacco terroristico per trascinare i propri potenti sponsor stranieri all’interno del conflitto siriano, fornendo alle loro opinioni pubbliche un motivo credibile per intervenire in loro soccorso. A questo punto, non possiamo che chiederci se l’intervento militare occidentale in Siria, per quanto cosmetico e limitato, sia stato indotto dalla stupidità del governo siriano o dalla furbizia dei ribelli islamisti.

La crisi siriana va letta non solo come una come questione militare, ma anche come una questione di credibilità politica, suscettibile di tattiche e strategie non meno importanti di quelle tradizionalmente predisposte dagli stati maggiori militari. Nel caso siriano, al netto della propaganda, le milizie, le cannonate e, in taluni casi, persino i “missili intelligenti” non sono bastati ad abbattere la credibilità del governo del Presidente Assad, che nella percezione politica dei suoi cittadini continua ad essere considerato il legittimo garante dello stato siriano, dilaniato da 7 anni di guerra. Assad non costituisce certamente un modello politico ideale per i siriani, tuttavia, questi sono ben consapevoli che le condizioni in cui si ritrovano a vivere da qualche anno a questa parte lasciano poco spazio agli ideali, e impongono un logico pragmatismo che gli induce a scegliere tra un governo autoritario conosciuto, con cui negoziare un percorso di riforma progressivo, o il prolungamento indefinito di una guerra civile, che inevitabilmente pregiudicherà le loro aspettative di vita, con la non remota possibilità che al posto della chimera liberal-democratica, si ritrovino a vivere sotto un più probabile regime islamista verosimilmente guidato da individui che, per loro estrazione culturale, sono più abituati a discettare di precetti coranici che di principi liberali.

Pertanto, se sul piano militare l’esercito siriano sembra prossimo ad imporsi sulle milizie islamiste, sul piano della credibilità, il governo baathista del presidente Bashar al-Assad continua ad essere considerato dai siriani come una delle poche certezze. D’altronde, senza una solida base di consenso, nessun leader sarebbe riuscito a resistere a 7 anni di guerra, cosa che nel pacifico occidente non siamo abituati a considerare, e dove i nostri governanti sono abituati a perdere la fiducia nel giro di qualche mese per molto meno. Assad non è un leader democratico di stampo europeo, ma il leader di un paese da anni assediato da orde di terroristi islamisti provenienti da mezzo Medioriente, eppure, malgrado la dura realtà che lo circonda, non ha mai dilapidato la credibilità di cui gode all’interno della frastagliata realtà sociale siriana, dimostrando di essere qualcosa di più di un banale despota, poiché qual ora fosse stato solo questo, avrebbe fatto una brutta fine da un bel pezzo, perché come sostenuto da Napoleone, nessun regno può reggersi a lungo basandosi esclusivamente sulle baionette. E’ questo è il dato politico su cui i politici e gli analisti occidentali dovrebbero riflettere per comprendere appieno il motivo che ha indotto i siriani a disilludersi dalle effimere promesse della Primavera Araba, preferendo la scomoda sicurezza autoritaria di Assad al fanatismo promosso da bande di islamisti a cui oramai vengono associati torbidi interessi stranieri e la prospettiva della fine della tradizionale coesistenza etnico-confessionale, che con tutti i suoi difetti, il Partito Baath era riuscito a garantire per 40 anni, rendendo la Siria un’esempio di coesistenza, vanificata soltanto dai ricorrenti tentativi esterni di esasperare le logiche settarie interne. Quello che in occidente non si capisce è che la fonte del consenso di cui gode Bashar al-Assad non deriva da tanto da meriti suoi, quanto dai demeriti dei suoi avversari, giacché l’odio che i siriani nutrono per i ribelli islamisti, e per ciò che hanno contribuito ad importare nella loro patria, surclassa le non indifferenti riserve politiche che nutrono nei confronti del presidente Assad. Assad rimarrà al suo posto fintanto che l’alternativa sarà quella degli ultimi anni, e ciò dovrebbe bastare ad indurre l’occidente a riconsiderare gli attori da sostenere in questo teatro di crisi.

Così come i siriani hanno scelto a chi “credere”, anche noi dobbiamo scegliere a chi credere, perché in fondo, la crisi siriana, e tutto ciò che la circonda, non è altro che una sfida di credibilità, che oggi si gioca in Siria, ma che presto o tardi farà tappa anche “altrove“.

PER SAPERNE DI PIU’:

Conosciamo la Siria 1   –  Conosciamo la Siria 2
Conosciamo la Siria 3  –  Conosciamo la Siria 4
La Guerra Civile Siriana  –  Focus sull’opposizione siriana
L’Alleanza tra Russia e Siria  – I rapporti tra USA e Siria
I protagonisti regionali della crisi siriana
L’epilogo della crisi siriana